Testo di Marco Torcasio, foto di Alex
Da Toh! Magazine #05, Estate 2011
“C’era una volta un mostro davvero brutto, con la testa grande e i piedi piccoli, le braccia lunghe e sottili che uscivano dalle orecchie e peli dappertutto: sul naso, sui piedi, sulla schiena, sui denti, sugli occhi e…. in tanti altri posti”.
Inizia cosi la storia raccontata da Henriette Bichonnier nel suo “Il Mostro Peloso” (1985), un classico della letteratura per l’infanzia. La caratteristica più spaventosa di questo personaggio fiabesco è la quantità ripugnante di peli distribuiti su ogni centimetro del suo corpo. Peli come simbolo di mostruosità e malvagità all’interno di una favola che trova il suo lieto nell’emblematica chiosa “fine della storia, fine dei peli” anziché nel classico “e vissero felici e contenti”.
Questo non è del resto l’unico mostro peloso che popola il mondo delle fobie infantili, perché l’idea che nell’immaginario collettivo associa la bruttezza, se non la crudeltà o l’inadeguatezza, all’ipertricosi ci viene somministrata sin dalla tenera età (Bigfoot ed i suoi amici fanno da film caposcuola).
Le vicende del pelo virile sono contradditorie e incongruenti perché l’argomento, inquadrato prettamente al maschile, assume accezioni positive onegative a seconda del periodo e soprattutto del settore considerato.
L’apologia del fisico depurato da antiestetici peli nell’uomo ha origini molto remote. Svetonio racconta che Augusto sfregava sulle gambe gusci di noce arroventati per far ricrescere i peli più morbidi e che Giulio Cesare, incurante di critiche ed ironie, si faceva depilare completamente La pratica era così diffusa all’epoca che nelle terme romane c’era un personale esclusivamente dedicato alla depilazione dei clienti di sesso maschile (gli alipiles). Credenze popolari al contrario dipingono gli vomini molto villosi come i più prestanti e lussuriosi e quelli glabri come casti ed impotenti. Intorno a quello che dovrebbe essere semplicemente un carattere sessuale secondario si è quindi articolato un vero e proprio fenomeno di costume che a tratti è anche leggenda metropolitana.
È piuttosto difficile reperire il messaggio “coi peli è meglio” sulle passerelle da cui il vero maschio rischia di scomparire come una specie in via d’estinzione, ma per fortuna lo stesso messaggio passa efficacemente attraverso vie secondarie ma non per questo meno rappresentative.Fatta eccezione per pochi, vedi gli stalloni palestrati di Dolce&Gabbana o DSquared2, l’uomo virile risulta fuori moda.
Un retroterra culturale intriso dal pregiudizio ha considerato per fin troppo tempo la depilazione pratica meramente omosessuale, additandola con disprezzo salvo poi sdoganarla progressivamente come usanza tutto sommato innocente, finendo per promuoverla e raccomandarla in termini di guadagno estetico ed erotico. Semmai al contrario è prerogativa del mondo omosessuale quella singolare predilezione per la peluria abbondante e diffusa che ha generato il fenomeno “bear”. Il termine è nato dall’intuizione di Richard Bulger e Chris Nelson, cofondatori nel 1987 a San Francisco della rivista “Bear Magazine”, e definisce i membri di quella parte della comunità gay che hanno creato intomo al pelo e alla sua venerazione una vera e propria sottocultura fatta di simboli, codici, immagini e termini inconfondibili certamente elitari.
L’immaginario orsofilo, anche se declinabile în molteplici varianti, attinge e trae ispirazione dall’arte di Touko Laaksonen, meglio conosciuto con lo pseudonimo Tom of Finland. Ipermascolinità ai limiti del parossismo plasmata con indumenti in pelle, tratti somatici saturi di testosterone, priapismi affatto patologici e chiaramente peli ben in mostra lo hanno reso il più influente creatore d’immagini omoerotiche mai esistito.
Letteratura, tradizione, moda, tecnologia, arte e dunque anche scienza trascinate dal fascino ispido del pelo. Esistono, infatti, degli studi statistici che documentano la crescita e la distribuzione dei peli, effettuati su un campione di millecento uomini caucasici tra i diciassette ei settantuno anni. Studi che hanno riscontrato quattro differenti tipologie di raggruppamento pilifero tipiche, sia per i peli del petto che per quelli addominali. Fabrizio De Andrè c’aveva visto lungo – “Duve gh’è pei ghiè amò”. Dove c’è pelo c’è amore.