All’esame di Istituzione di Analisi Superiore, dopo un’ora e quaranta di interrogazione, il professore le chiese: «ma Valerio è il nome o il cognome?». Lei non si sentì offesa – d’altronde era cresciuta a pane e Lady Oscar: semplicemente, capì che il genere può essere una questione secondaria se ci si sta occupando d’altro, soprattutto se ci si sta occupando di matematica.
E di matematica si occupa l’ultimo libro di Chiara Valerio, un pamphlet che mischia ricordi a polemica civile e che si intitola, appunto, La matematica è politica, pubblicato da Einaudi alla vigilia del referendum costituzionale di settembre. Insieme al fatto che sia nata a Scauri (frazione del comune di Minturno sul Mar Tirreno, in cui ci ha accompagnato per una puntata di Terre d’autore), di lei si dice spesso, quasi ossessivamente, che abbia un dottorato in Calcolo delle Probabilità, che abbia passato tredici anni – ben prima di compierne trenta – a occuparsi di matematica fra la Federico II di Napoli e la Normale di Pisa, la Bocconi, l’Università di Trento e Bologna.
Eppure da altrettanti anni Chiara si occupa d’altro (Valerio è il cognome): è responsabile della Narrativa Italiana della casa editrice Marsilio, traduttrice delle opere di Virginia Woolf, lavora al programma Ad alta voce di Radio 3, collabora con Amica e Vanity Fair, Robinson e il quotidiano Domani – ma in ogni trasmissione televisiva che la ospita, in ogni articolo e intervista il suo passato anticipa il suo presente: anche in questa.
Secondo lei, perché?
Perché il nostro Paese ancora langue nell’idea della doppia cultura: e quindi che chi ha studiato materie scientifiche non possa occuparsi di materie umanistiche e viceversa. Abbiamo avuto e abbiamo molti scrittori che vengono da percorsi altri rispetto alle lettere – Levi era chimico, Gadda ingegnere, Sinisgalli aveva studiato matematica, Veronesi è architetto, Desiati ha studiato giurisprudenza, Michela Murgia teologia che è una forma di ragionamento deduttivo, Malvaldi è chimico e Paolo Giordano fisico, per citare i primi che mi vengono in mente. Certo, tra tutte, la matematica viene percepita come materia scevra da emotività, invece è la scienza delle relazioni, ed è ciò che cerco di ribadire anche col mio ultimo libro.
Ha citato Paolo Giordano, laureato appunto in Fisica, a cui Lilli Gruber – quando è ospite a Otto e mezzo – pone le domande «da scienziato».
Mi pare ci sia una diversa percezione del matematico rispetto al fisico: si pensa che il matematico studi cose avulse dalla realtà – il matematico pazzo, chiuso da solo da qualche parte con i suoi conti, sbadato rispetto alla vita pratica. Inoltre, in questo caso, dall’inizio del lockdown Giordano ha tenuto un diario scientifico della pandemia – dunque viene chiamato fisico anche se è molto riconosciuto come scrittore. Ha vinto il premio Strega col suo libro d’esordio che è stato un bestseller non solo italiano. Mi fa venire in mente una cosa: negli anni Sessanta, quando a Feynman capitava di suonare il tamburo in pubblico, nessuno specificava mai che si occupasse di fisica: era Feynman stesso a ricordare di essere un fisico. Adesso passerò il resto della conversazione a chiedermi che cosa è cambiato dagli anni Sessanta a oggi. Forse prima non era strano aver fatto studi scientifici…
A proposito di Lilli Gruber, dallo scorso 22 aprile anche lei – come Gruber e come il premier Conte e Giulia De Lellis – ha le sue bimbe.
Sì, è the remains of Buon Vicinato. E devo dire che le persone che tengono le pagine sono straordinarie, affettuose e sfottò, puntuali e creative, insomma interlocutori. E interlocutrici. Però non so chi siano. Ho conosciuto i bimbi di Giammei a Torino, fantastici, siamo andati a cena e abbiamo mangiato una farinata di ceci.
Buon Vicinato era l’appuntamento quotidiano che divideva con Michela Murgia sul suo canale YouTube durante i giorni del primo confinamento, tra marzo e aprile: pensa che quel format l’abbia resa una figura pop?
Beh, sicuramente più pop di quello strano Adso da Melk che sono. Poi, mentre glielo dico, penso che ci sia della vanità nel definirsi Adso: ormai sono una signora di mezza età. Buon Vicinato è stata (e dunque sarà, io sono parmenidea dentro) una grande occasione culturale. Una idea di Michela. Michela è molto brava a isolare, nel mare delle idee assolute e transeunti, l’idea giusta: in quel periodo di isolamento pareva che non potessimo più litigare, perché non si litiga attraverso uno schermo, è difficile; e invece per un mese e mezzo abbiamo dimostrato di poterlo fare, dialogicamente, dialetticamente.
In una di quelle puntate ha raccontato del suo rapporto con Marcella, la sua compagna, a cui peraltro dedica l’ultima bellissima riga dei ringraziamenti ne Il cuore non si vede: sarà mica stato il suo coming-out?
In realtà non ho mai sentito l’esigenza di fare coming-out: una volta, dopo aver conosciuto Elisabetta, anni fa, sono tornata a casa e ho detto: mi sono messa con Elisabetta. Non so, dichiararsi significa in fondo amare una categoria, e io mi innamoro delle persone. Una per una.
Con la differenza che all’epoca diceva «mi sono messa con Elisabetta» ai membri della sua famiglia mentre oggi dice «mi sono messa con Marcella» in un video da 15mila visualizzazioni.
Penso a cosa scrive Natalia Ginzburg in Caro Michele, sugli occhi delle persone che ci amano, che possono essere spietati, ma pure teneri. Ecco, una volta passata per gli occhi spietati e teneri dei miei genitori e delle mie sorelle che non hanno nemmeno avuto diritto al coming-out, beh, non credo ci sia molto da dire. Poi nemmeno quello è un coming-out: vivo con Marcella.
Ma il coming-out di uno scrittore fa notizia?
Spero di no.
Penso a quelli di Tiziano Ferro e Guglielmo Scilla che nemmeno l’hanno fatta perché forse tardivi, che magari sono stati costretti al passare del tempo con lo spauracchio di compromettere la propria carriera.
Io penso ad alcune cantanti, super rock, icone, mitiche, che lo hanno taciuto e lo tacciono.
Quindi il problema potrebbe non stare tra essere scrittori o cantanti ma tra essere maschi e femmine?
No, non credo che sia una faccenda di genere. Penso che il problema sia non parlare quando sai bene, intuisci nitidamente, che quello che hai da dire potrebbe liberare molte altre persone.
A proposito di autori diversamente etero – e glielo chiedo anche in quanto parte di una casa editrice: non trova che le cosiddette “storie gay”, che siano libri o film, parlino sempre di un uomo che scopre sé stesso attraverso l’improvvisa attrazione per un altro uomo? I gay, come dice Bruce LaBruce, scoprono loro stessi da quarant’anni?
Quest’anno abbiamo pubblicato un romanzo bellissimo di Giancarlo Pastore, intitolato Un giorno uno di noi, e lì no, i gay non scoprono loro stessi a quarant’anni come nella gran parte della letteratura gay (almeno di quella che ho letto io); è una storia d’amore, come Call me by your name, come Non ci sono sono le arance o come i romanzi di Sarah Waters. Però capisco assai bene di cosa parla.
È riuscita a citare storie di donne, eppure a me pare che l’omosessualità femminile sia ancora meno rappresentata…
Perché l’omosessualità femminile è passata da una deviazione di collegio a una etichetta del porno, è meno sanzionata perché mi pare che sia raccontata come funzionale a un sesso “ulteriore”, come un primo stadio della vita sessuale delle donne. Mentre le parlo mi sento vecchissima: leggo manoscritti di persone molto giovani dove non c’è neanche più la distinzione tra maschio e femmina nell’io narrante. Quando ero ragazzina, e intuivo che mi piacevano le ragazze, e non trovavo uno spazio di immedesimazione per me in quei romanzi dove i gay scoprono loro stessi a quarant’anni, mi attaccavo a qualsiasi cosa. Se ci fosse stato un dentifricio pubblicizzato con lo slogan «questo dentifricio è usato dalle lesbiche», lo avrei certamente comprato.
Sta pensando ancora a cosa sia cambiato dagli anni Sessanta a oggi?
Ci penso sempre. Pensi che quando leggo Caro Michele, che è degli anni Settanta, mi segno le marche dei prodotti che ancora sono in commercio. Lo faccio anche con Elsa Morante, con Aracoeli che è degli anni Ottanta. Una forma di grammatica di oggetti. E anche con i Finzi-Contini, che sono degli anni Sessanta. Non so perché mi sono venuti in mente tre romanzi con (almeno) tre personaggi queer. Sì, ci sto pensando ancora comunque.
Oltre a scrivere, tradurre e gestire il lavoro editoriale, conduce anche il programma L’isola deserta, ogni domenica mattina su Radio 3. Ma se dovesse scegliere di fare solo una di tutte queste cose, cosa sceglierebbe?
Quella che le contiene tutte: leggere.