Silvio Tonie: Scrivere il mondo, svelare l’anima

Silvio Tonie ci accoglie in un luogo nascosto tra i filamenti dell’essere, dove mito e memoria si intrecciano in un disegno segreto. È un luogo fragile, fatto di parole che sussurrano verità universali, ma che risuonano nel cuore come confessioni intime. In questo spazio, Silvio Tonie diventa cartografo di mondi interiori, trasforma la malinconia in colore, la vulnerabilità in forza, la mortalità in bellezza.

Con Silvio Tonie, scopriamo un alchimista di versi e visioni, che esplora il passato come un archivio vivente, intrecciando il sacro e il profano, il quotidiano e l’eterno. Le sue parole non sono solo poesia; sono chiavi per aprire porte nascoste, finestre spalancate sul blu infinito della trasformazione. 

Silvio Tonie ci guida in un viaggio dove l’identità si costruisce e si dissolve, dove l’arte non è solo creazione, ma sopravvivenza, e ogni ricordo diventa un mito personale.

La sua scrittura nasce da un amore primordiale per il linguaggio, un amore che affonda le radici nello studio e nella pratica del diritto, e che ha trovato la sua evoluzione in un’arte che si fa voce. La sua esplorazione poetica è una riflessione sull’identità, sul passato e sul futuro, un’interrogazione delle proprie radici che diventa, al contempo, un’affermazione universale.

Come Omero invidiava i mortali per la loro effimera intensità, così Silvio Tonie celebra la caducità della vita, trovandovi una bellezza che sfida il tempo. La sua opera non è solo un viaggio personale, ma una ricerca universale, un invito a riconsiderare le nostre stesse storie e ad abbracciare la trasformazione che scaturisce dal confronto con l’ignoto.

Questa intervista è un invito a navigare con Silvio Tonie tra le acque profonde della poesia, un dialogo con l’universale che risiede dentro ognuno di noi, un canto di connessione in un mondo frammentato.

Benvenuti nel mito di Silvio Tonie.

La tua poesia è caratterizzata da un’interazione tra mito e introspezione personale. Quale mito ha influenzato di più il tuo lavoro?
Ci sono innumerevoli miti che mi hanno influenzato, poiché la mitologia stessa è stata il mio ingresso nella poesia. I poeti, nel corso dei secoli, sono stati gli architetti dei nostri miti, e il loro lavoro continua a ispirarci e sfidarci. Vedo i miti come specchi: riflessi di noi stessi che invitano all’introspezione. Per questo motivo, direi che il mio stesso mito è stato il più significativo. Con “il mio stesso mito” non intendo qualcosa di puramente originale, ma piuttosto un intreccio di storie, adottate e interiorizzate attraverso l’arte dell’introspezione.

Ogni volta che risuoniamo con una storia, quella risonanza riflette una verità universale più profonda: un linguaggio che ci aiuta a comprendere meglio noi stessi. L’atto di mitologizzare se stessi va oltre una pratica creativa; è un atto di sopravvivenza. Raccontiamo a noi stessi storie per dare senso alle nostre vite e per navigare nella nostra esistenza.

La mia esplorazione della mia storia e della mia ascendenza mi ha avvicinato a molti miti: dalla mitologia giudeo-cristiana al mito del Buddha, dalla mitologia greco-romana a innumerevoli miti della creazione provenienti da tutto il mondo.

Queste storie condividono fili e archetipi comuni, ricordandoci che, mentre il mondo intorno a noi cambia, continuiamo ad affrontare le stesse domande senza tempo sulla vita, sull’essere e sul significato dell’esistenza. Alla base, tutti i miti sono uno e lo stesso. Questo concetto di “monomito” mi affascina infinitamente, specialmente per i precetti psicologici senza tempo che rivela se guardiamo oltre il velo della metafora.

Per me, il mito non riguarda solo la narrazione; riguarda l’integrazione. Incorporare queste idee archetipiche nella mia vita e invitare altri a fare lo stesso è al centro del mio lavoro. I miti ci forniscono materiale di origine per ricostruire noi stessi all’interno delle loro narrazioni. Il passato che usiamo per plasmare le nostre identità è, in ultima analisi, una storia che raccontiamo a noi stessi. In qualsiasi momento, possiamo scegliere di reinterpretare quella storia e crearne una migliore.

Credo fermamente nel trarre dai miti per creare una mitologia personale. Quando esploriamo verità universali su noi stessi, tocchiamo qualcosa di condiviso e collettivo. I miti, siano essi ricevuti dal subconscio o dal mistico, ci uniscono nella loro essenza.

Per chiunque desideri iniziare il proprio viaggio mitologico, consiglio di partire dalle Metamorfosi di Ovidio. Tra i classici, è uno dei più leggibili e racchiude eloquentemente il pantheon greco-romano. Anche il titolo stesso parla chiaro: siamo tutti in uno stato di trasformazione costante.

Blue Myth è descritto come una raccolta che esplora storie personali e collettive. Potresti dirci come è nato questo progetto?
Blue Myth è un’esplorazione della mia mitologia personale—la lente attraverso cui percepisco e interpreto il mondo. Diventando consapevole di come sono predisposto a vedere le cose e rendendo esplicita quella prospettiva, anche negli aspetti banali della vita, trovo un senso di liberazione. Questa libertà arriva solo attraverso la vigilanza e la volontà di confrontarsi continuamente con questi schemi e di identificarli. Potrei soccombere a una patologia o reinterpretare tutto ciò attraverso il mito e trovare un modo migliore per comprendere me stesso.

La mitologia, a differenza della teologia, è malleabile; ci invita a plasmarla in qualcosa di personale e significativo. L’introspezione, credo, ci consente di abbandonare sia le nostre identità fisiche che quelle intangibili. Man mano che ci immergiamo più profondamente nell’auto-esplorazione, arriviamo a una profonda realizzazione: sotto queste forme ed etichette, siamo fondamentalmente gli stessi. Parlare di questa essenza condivisa crea un ponte, invitando gli altri a intraprendere i propri viaggi di auto-scoperta.

Tutti cerchiamo di essere visti, di essere amati. Al nostro interno, siamo fatti degli stessi elementi, guidati dagli stessi bisogni fondamentali. Oltre a questo, tutto il resto è rumore.

Scientificamente e biologicamente, non siamo diversi l’uno dall’altro. Il nostro senso di separazione è un’illusione—un’illusione che cerco di ridurre attraverso il mio lavoro.

Le esperienze della vita che affrontano l’ego spesso rivelano l’unità dell’essere in modi che sfuggono alla spiegazione. Quando parliamo profondamente e onestamente di noi stessi, quelle verità risuonano naturalmente con il collettivo. Maya Angelou, uno dei miei autori preferiti, ha espresso magnificamente questa idea quando citava spesso il drammaturgo romano Terenzio: “Sono un essere umano; nulla di umano può essermi estraneo.”

Questo sentimento è al cuore di Blue Myth. Sto lavorando alla mia prima antologia da molto tempo e sono entusiasta di condividere che sarà pubblicata il prossimo anno. È una raccolta profondamente personale di poesie e saggi che riflettono il mio viaggio e le verità universali che ho scoperto lungo la strada.

Nei tuoi versi c’è una forte connessione con la memoria e la riflessione sul passato. Quale ruolo gioca il ricordo nel tuo processo creativo?
I ricordi sono, in sé, i nostri miti personali. La memoria non è radicata nella realtà oggettiva; invece, filtriamo i nostri ricordi attraverso la lente della nostra identità.

Siamo spettatori intrinsecamente parziali delle nostre vite, e il modo in cui percepiamo il nostro passato è sempre in evoluzione.

Dal medesimo passato in cui una volta vedevamo la sconfitta, possiamo ora trovare trionfo. Dove una volta vedevamo tragedia, possiamo scoprire commedia. Dove ci odiavamo, possiamo scoprire amore sotto mentite spoglie. E dove percepivamo debolezza, possiamo coltivare forza. Questo cambiamento di prospettiva è ciò che la mitologia—e la poesia—ci offrono. Entrambi servono come strumenti per re-immaginare e riformulare le nostre esperienze.

L’alternativa, suppongo, è soccombere alla disperazione. Ma dobbiamo resistere. Raccontiamo a noi stessi storie per sopravvivere, per dare senso alle nostre vite. Queste storie, sebbene legate ai nostri pregiudizi e percezioni, detengono un potere trasformativo.

Esaminare la propria identità è inseparabile dall’esaminare il proprio passato e, così facendo, creiamo i nostri miti personali. Questo intreccio tra memoria e mito alimenta il mio processo creativo. La poesia diventa un modo per esplorare, riformulare e, infine, re-immaginare le narrazioni che ci definiscono.

Trovo affascinante come tu, come poeta, incorpori elementi visivi, come fotografie di te stesso o video in cui la tua voce legge la tua poesia. Quando e come è nata questa idea?

Credo che la poesia possa essere tanto un medium visivo quanto linguistico. Un’immagine, come una poesia, è una metafora visiva: ci invita a guardare oltre la superficie e a creare il nostro significato. Per me, questa connessione tra visivo e poetico sembra naturale, quasi ciclica—una situazione da uovo o gallina.

Vivere immagini e oggetti come metafore e allegorie mi ha sempre riportato alla scrittura; i due sono diventati indissolubilmente legati tra loro. Vedo poesie ovunque.

Gran parte del Blue Myth è legata a questa idea. Sono anche un fermo sostenitore del fatto che la poesia sia performance; le sue origini risiedono nelle tradizioni orali molto prima dell’avvento della scrittura. C’è una sorta di alchimia nell’ascoltare un poeta dare vita al proprio lavoro—qualcosa che trascende la parola scritta e infonde nuove dimensioni alla poesia stessa. Incorporare elementi visivi, come fotografie, video e registrazioni vocali, nel mio lavoro sembra un’estensione di questa convinzione; consente alla poesia di abitare più spazi e di impegnare i sensi in modi diversi. Sono fortunato a collaborare con il mio migliore amico e partner, il cui contributo e visione condivisa hanno aiutato a realizzare queste idee.

C’è una relazione tra il titolo della tua poesia Phantasmagoria e il senso di transitorietà o illusione? Qual è il messaggio principale di questo pezzo?

Phantasmagoria riguarda molto la relazione tra illusione e transitorietà. C’è una qualità quasi inquietante nella natura ciclica della memoria, dove immagini e frammenti del passato si ripetono incessantemente nelle nostre menti in un ciclo costante. Come scrisse Edgar Allan Poe: “La vita non è altro che un sogno dentro un sogno.” In molti modi, percepisco l’esistenza così: siamo tutti sospesi nei nostri sogni, continuamente spostandoci tra realtà e illusione.

Abbiamo il potere di scegliere se questi sogni diventino incubi o momenti di chiarezza. La mente è sia creatrice sia prigioniera di questi fantasmi; come interagiamo con essi plasma la natura della nostra esperienza.

Phantasmagoria esplora questa tensione: la fragile linea tra ciò che è reale e ciò che è immaginato, tra ciò che è fugace e ciò che è permanente. È una meditazione sul modo in cui navighiamo nelle illusioni della vita; anche nei momenti di confusione o caos, abbiamo l’agenzia per plasmare la nostra percezione della realtà. Il messaggio principale della poesia è che non siamo semplicemente destinatari passivi delle nostre esperienze; siamo partecipanti attivi nella creazione delle storie che viviamo. Il potere di trascendere le illusioni che ci legano risiede dentro di noi.

In The Outcast of Eden, esplori il tema della perdita e dell’abbandono. Cosa rappresenta per te questo esilio dall'”Eden”?
In The Outcast of Eden, l’esilio rappresenta una sorta di profondo distacco—esiliato da me stesso, dai miei cari, dal mio amante, dal giardino, dalla felicità. Credo che l’esilio sia un processo necessario: un modo per ritirarsi e allontanarsi anche dalla propria identità stessa. È attraverso questo distacco che avviene la vera scoperta; per avere una visione d’insieme della propria vita bisogna elevarsi a nuove altezze—fondamentalmente un volo che può essere intrapreso solo da soli. Quando sei esiliato, non rimani stagnante. I miti spesso ci dicono di vagabondare nel deserto—una metafora del viaggio verso la scoperta di sé.

Vagabondiamo non solo senza meta ma con uno scopo: affinché possiamo veramente comprendere cosa stiamo cercando. L’esilio non è uno stato permanente ma un processo di ritiro che consente il rinnovamento. Devi ritirarti continuamente dentro te stesso per ricalibrarti, affinché tu possa riemergere e interagire nuovamente con il mondo e con i tuoi desideri. È questo pendolo tra ritiro e ritorno che ci mantiene in movimento verso il futuro.

Consultare la propria bussola interna richiede sforzo costante: un continuo processo di auto-riflessione e crescita.

Il concetto di “dubbio” appare in alcune delle tue poesie. In che modo il dubbio arricchisce o sfida il tuo percorso artistico?
Per me, il mio lavoro è un’esplorazione della tensione e della deliberazione. Scrivere è un processo per convincere me stesso—per lavorare attraverso i dubbi mentre esamino i miei pensieri ed emozioni. Una poesia o una canzone che porta l’ascoltatore in un viaggio simile d’incertezza è spesso quel tipo di lavoro che ammiro maggiormente. Voglio che quella tensione—questo combattimento con i dubbi—emerga nella mia scrittura; voglio portare lettori o ascoltatori nel viaggio per comprendere come sono arrivato alle mie conclusioni. In questo modo, il dubbio è cruciale.

È attraverso il dubbio che posso esplorare domande più profonde e sfidare le mie stesse convinzioni. Penso che la certezza sia pericolosa poiché limita spesso le potenzialità di crescita e di comprensione più profonda.

Ecco perché sono attratto dalla mitologia piuttosto che dalla dogmatica teologica. I miti, plasmati dalle tradizioni orali, sono intrinsecamente flessibili: invitano alla reinterpretazione. Ogni poeta, nel corso della storia, ha aggiunto la propria voce a questa conversazione in evoluzione—molto simile a un gioco del telefono attraverso i secoli. Per me, l’atto di conversare con le moltitudini interiori—quelle voci plasmate dal mito, dalla storia e dall’esperienza personale—è ciò che rende così ricca la poesia.

Chi sono i tuoi autori o poeti preferiti e come hanno influenzato la tua scrittura?
I poeti sono sempre stati i creatori dei miti delle loro culture. Se guardiamo alle fonti primarie di qualsiasi mito nel canone occidentale, vediamo chiaramente come siano stati i poeti a dare forma alle nostre storie collettive. Ecco perché ho sempre voluto essere poeta: perché i poeti sono i veri autori dei nostri miti. Sono quelli che creano le narrazioni che plasmano come comprendiamo noi stessi e il mondo intorno a noi. Quando leggi un grande lavoro, ti invita a vedere te stesso in esso.

Per me, quel momento si è presentato leggendo I Know Why the Caged Bird Sings di Maya Angelou. Il suo lavoro ha aperto un mondo in cui potevo trovare la mia voce; dove potevo vedere il mio passato come una poesia ed esprimerlo nella sua esistenza. Anche le opere di Joseph Campbell hanno avuto un’influenza profonda sulla mia scrittura. Il concetto del monomito o del viaggio dell’eroe parla profondamente dentro di me; risuona con la mia comprensione della trasformazione. Dylan Thomas, che intrecciò mitologie cristiane nel suo lavoro, ha lasciato anche lui un’impronta duratura sulla mia poesia.

Insieme a Patti Smith, Joan Didion, James Baldwin e William Blake, questi scrittori hanno plasmato il mio approccio alla narrazione e al linguaggio. Quando ami veramente un autore, quando consumi ed entri in comunione con tutte le loro opere, loro diventano una voce dentro la tua testa. Puoi sentire come ciascuno ragionerebbe o scriverebbe su un argomento o un’emozione con cui ti confronti. Proprio come nella mia esplorazione del mito, gli scrittori prendono pezzi da tutto ciò che amano e lo rendono proprio. Questa è la natura dell’arte: nessuno reinventa la ruota; semplicemente rende la ruota propria.

C’è qualcosa di incredibilmente potente nell’essere in dialogo con gli autori che ami. Le loro opere conversano tra loro attraverso il tempo e, più approfondisci le tue influenze, più incontri anche le loro ispirazioni. Questo scambio attraversa millenni, ed essere anche solo una piccola parte di questa conversazione continua è stata la mia vocazione nella vita.

Scrivere poesia rappresenta per te un atto liberatorio o rivelatorio? Quali emozioni provi durante il processo creativo?
Per me, scrivere poesia rappresenta sia un atto liberatorio sia rivelatorio. Quando scrivo, mi svuoto. Una poesia diventa lo spazio dove posso rivelare i miei segreti—è la mia confessione. Scrivo perché ho vissuto l’alternativa—imbottigliare pensieri, emozioni e identità—per troppo tempo, e ho scoperto quanto fosse estenuante. Ogni volta che cerco di scrivere su un’esperienza, devo riattivarmi all’interno dell’esperienza stessa. Questo processo—di abitare completamente l’emozione o il ricordo che desidero trasmettere—è spesso più importante dell’atto stesso dello scrivere.

Raggiungere quello stato di chiarezza non è sempre facile, soprattutto quando sono offuscato da dubbi o distrazioni. C’è una parte della mia salvezza intrecciata nella mia scrittura.

Scrivo perché ho bisogno di salvezza e so bene che solo io posso salvarmi. In molti modi, scrivere ed ottenere salvezza sono indissolubilmente legati. Ho trascorso gran parte della mia vita evitando questa chiamata e sono certo che, se avessi continuato a farlo, non sarei qui oggi. Non lo dico iperbolicamente.

Ho cercato contento in altre carriere, ma mi sono sempre sentito distante dal sé che sapevo fosse dentro di me—dal potenziale che ho sempre avuto. Scrivo non solo per liberarmi, per sbloccare le mie potenzialità, ma anche per liberarmi dalle esperienze che mi appesantiscono. Scrivere rappresenta il mio mezzo per sopravvivere, per diventare chi ero sempre destinato a essere.

La tua scrittura sembra avere una forte componente visiva e simbolica. Quanto è importante l’immaginario visivo per te nella costruzione di una poesia?
L’immaginario visivo gioca un ruolo significativo nella mia poesia, anche se non è sempre presente in ogni opera. Tuttavia, quando un lavoro è davvero pronto per essere scritto, riesco a vederlo prima che prenda forma sulla pagina.

Esiste uno stato simile a quello Zen in cui entro talvolta quando scrivo, una sorta di “runner’s high”, in cui la mente razionale si acquieta e io mi trovo semplicemente nell’atto di creare. È simile al flusso che si prova quando si è completamente immersi in un’esperienza, che sia correre, fare l’amore o vivere pienamente il momento presente. Diventi l’azione, non solo l’osservatore.

Chiamo questo stato “la stanza della luce bianca”. È un luogo di pura coscienza, così luminoso e intenso da essere quasi accecante. È uno stato di chiarezza e connessione in cui sento di attingere a qualcosa di più grande di me. Anche se non sempre riesco a raggiungere questo luogo—e spesso fallisco—è la ricerca di esso che mi alimenta. Quando arrivo lì, l’universo sembra cantare in armonia con i miei pensieri.

Le immagini che vedo nella mia mente spesso servono come scintilla per la mia scrittura. Sono vivide, a volte sorprendenti, e mi spingono a dare loro forma con le parole. Questi momenti visivi possono provenire da una scena fugace nella natura, da un’insolita giustapposizione che osservo nel mondo o persino da ricordi che rivedo come vecchie fotografie. È come se fossi un traduttore delle immagini che ricevo, cercando di trasporne l’essenza emotiva in linguaggio o di trovare le parole per descrivere qualcosa di ineffabile.