Dopo le atmosfere sospese dell’elettronica di Diamanti, Ginevra torna con un album crudo, terreno e politico. Femina è un diario aperto che urla, lotta e si sporca le mani con la realtà.
Ginevra non ha più voglia di sussurrare. Con Femina, il suo nuovo disco, cambia pelle e linguaggio: abbandona le sonorità eteree dei lavori precedenti per abbracciare un suono più organico, arrabbiato, viscerale.
Ispirata da letture al femminile, da eventi personali e da un’urgenza sociale sempre più pressante, l’artista costruisce un album che è al tempo stesso confessione, presa di posizione e grido collettivo. In questa intervista ci racconta il processo dietro Femina, il potere dell’educazione e che a volte è necessario spaccare tutto!

L’ultima volta che ci siamo incrociati stavi lavorando al disco, e mi dicesti: “Preparati, sarà tosto.” E così è stato! Come sei passata da un suono elettronico, più onirico e sospeso, a fare un album più organico, con i piedi per terra e arrabbiato?
È stato un passaggio piuttosto naturale. Innanzitutto, perché non volevo arenarmi nell’elettronica, ma continuare a sperimentare in tutto ciò che faccio — anche da ora in avanti.
Scrivendo i brani, mi sono resa conto che erano molto intimi ma anche duri, e mi è venuto spontaneo cercare un suono meno etereo e più diretto, concreto. Da lì è nata la scelta di una produzione e di sonorità che assecondassero questa necessità in modo chiaro, senza giri di parole o interpretazioni troppo aperte.
Il mondo etereo è magico e mistico, ma questo album è terreno. Parla di problemi reali, di quotidianità, di diritti, e volevo che arrivasse in maniera più immediata.
Esatto, perché entrambi i tuoi album sono molto personali, ma questo mi sembra di più facile lettura, e di conseguenza ci si può relazionare, non credi?
Grazie, lo spero tanto. Sì, i miei lavori sono sempre legati a me, ma con Femina ho voluto scavare ancora più a fondo, dire la mia. Le mie canzoni sono sempre dei diari aperti, ma stavolta mi sono permessa anche di arrabbiarmi, cosa che prima non avevo fatto.
Anche la voce è meno precisa, a volte distorta. Musicalmente, gli anni ’90 ci sono sempre stati, ma qui ho preso la parte più rock e organica, che viene un po’ dalla mia era pre-Diamanti, dal mio primissimo EP in inglese, Ruins, che era a tratti folk e a tratti elettronico. Quindi su certe cose è stata un’evoluzione, su altre una riscoperta di suoni che in realtà avevo già dentro.
L’album è stato ispirato dal saggio di Janina Ramirez “Femina: Storia del Medioevo attraverso le donne che sono state cancellate“. Ha influenzato così tanto il disco da dargli anche il titolo?
Due anni fa stavo lavorando al disco, ma non avevo ancora chiaro il tema né l’universo che lo racchiudesse. Però ero totalmente in ascolto. Leggevo moltissimo, quasi esclusivamente autrici donne. Ricordo che era l’estate in cui è mancata Michela Murgia, e quella cosa mi colpì profondamente.
Ero immersa in un mondo femminile: foto, libri, film di registe… e quel pomeriggio a Milano, in libreria con le mie amiche prima delle vacanze, vidi questo tomo intitolato Femina. Mi catturò subito. L’ho preso d’istinto e me lo sono letto in estate.
Lo considero un libro importante perché offre una nuova prospettiva sulla Storia, e ti fa pensare: “Caspita, se anche a scuola ci insegnassero così, includendo le figure femminili che hanno cambiato le cose, avremmo un’educazione e una visione completamente diverse.”
Non ci sono brani ispirati direttamente al libro, ma ne ha ispirato il concept.
Poi, quando mi sono ritrovata incazzata nera per l’ennesimo femminicidio o per vicende personali in cui mi sentivo schiacciata, quel libro era lì, a guardarmi. Ed è nato il brano Femina, che ha dato anche il titolo al disco.

A proposito di Femina, il testo è come uno sparo allo stomaco e parla di un tema purtroppo sempre attuale: i femminicidi. Che ruolo dovrebbe avere, secondo te, l’educazione per contrastare una cultura maschilista?
L’educazione è la chiave. È per questo che un saggio come quello di Janina è così importante: perché cambia la prospettiva con cui raccontiamo la donna nella storia.
È fondamentale fare un lavoro enorme sull’educazione dei più piccoli. Ho visto di recente Adolescence su Netflix e mi ha devastata per la sua verità. Si parla di cyberbullismo, ma culmina in un femminicidio. E il fatto che certi comportamenti siano percepiti come legittimi già da piccoli è il sintomo di un sistema che va sradicato.
Serve educazione a scuola — dove si passa tantissimo tempo — ma anche a casa, perché la cultura patriarcale è insita anche in alcune donne. Abbiamo dentro preconcetti talmente radicati che vanno contrastati fin dall’infanzia.
Noi siamo gli scarti di una cultura che non ci appartiene più, e che stiamo cercando di superare. Voglio essere ottimista, anche se sono cinica, ma ci voglio credere.
Parliamo di Spacco Tutto, un pezzo arrabbiato, uno sfogo punk che strizza l’occhio al suono di Bristol e alla jungle. E ora, per l’uscita del vinile, lo hai contaminato con il feat. di Meg, che da sempre è una guerriera. L’hai scelta anche per questo?
Sì, dentro c’è un po’ di tutto. È un brano che fa parte del discorso complessivo dell’album, parla di dire la verità e di arrabbiarsi. Io non sono una persona che, quando si arrabbia, “spacca tutto”, quindi detto da me, per come sono fatta, ha ancora più senso: è un gesto inaspettato.
Spacco Tutto è un claim liberatorio. Il brano nasceva con una vena elettronica, ma poi — con questo testo — è diventato più punk, più sporco, più drum’n’bass. È un mix tra due mondi. E quando parte la parte jungle, arriva Meg, che è la regina del basso.
A disco ultimato volevo una figura femminile accanto a me, una spalla e una sorella in questo lavoro. Ho pensato subito a lei: è un richiamo al suo sound, ma anche a ciò che rappresenta.
Meg è una voce che si è sempre ribellata, che ha sempre sperimentato, che ha sempre combattuto. Non è mai stata zitta. Io, da piccola, ascoltavo le sue canzoni da solista e ne rimasi folgorata: Chi è questo alieno che mescola l’italianità di Mina con la sperimentazione elettronica?
Poi abbiamo due collaboratori in comune, i fratelli Fugazza, quindi ho avuto modo di conoscerla. Avevo bisogno di qualcuno che mi proteggesse, che urlasse con me. E sono davvero felice che sia nel mio disco.

In un panorama musicale in cui in pochi prendono posizione, tu hai preso coraggio e lo hai fatto quasi come fosse una necessità, è stato così?
Sì! É figlio di eventi e alcune dinamiche della mia vita da cui dovevo sbrigliarmi. Sono contenta di essermi presa la briga di aver fatto questo disco che mi rappresenta tanto e che spero arrivi forte. Non so se la definirei una mossa coraggiosa, per me è stato semplicemente ascoltarmi e trovare il modo di raccontarlo in modo naturale.
Curi sempre tutto a 360°, come sono nati gli scatti poetici di Giulia Gatti ?
Quando ho cominciato a pensare all’immaginario del disco ho contattato Aurora Rossa Manni che ha sposato subito il progetto perchè anche a livello estetico è un racconto che la rappresenta e abbiamo curato la direzione artistica insieme.
Parlando del mondo che volevamo creare mi sono venute in mente le fotografie di Giulia Gatti, che scatta donne in bianco e nero girando il mondo. L’ho contattata e si sono connessi tanti punti, lei nella sua vita ha sempre scattato solo donne e nel mio racconto estetico volevo coinvolgere le mie amiche in un racconto che fosse reale e non un set.
Traspare molta intimità da quelle foto…
É quello che volevo, stare con delle persone con cui fossi totalmente a mio agio e viceversa e poi nelle foto ci sono tante cose mie come vestiti, oggetti, simboli, cose di mia mamma e di mia nonna, è tutto connesso e molto personale. Abbiamo creato questo mondo utopico al femminile in cui scappiamo dalla città e viviamo in campagna seguendo le nostre regole e il ritmo del sole. É stata una giornata pazzesca, abbiamo lavorato tutto il giorno ma eravamo tra amiche c’era un’energia bellissima. É importante prendersi del tempo per condividere e fare le cose che si amano.
Quel prendersi cura gli uni degli altri che vanno a formare poi le così dette choosen family, nella comunità LGBTQIA+ lo sappiamo bene e tu ci hai sempre sostenuti!
Le amicizie per me sono fondamentali, così come la comunità che è fondamentale per non sentirci soli, per sentirci capiti e anche per andare avanti specialmente in questo periodo storico. Sono sempre stata vicina alla comunità scrissi un brano come Anarchici per me stessa, per l’amore e per la comunità LGBTQIA+ e spero che arrivi anche questo lavoro a tutt* pur essendo totalmente declinato al femminile. Avevo questa necessità di non essere neutra ma di rivolgermi direttamente al mio essere donna e alle donne della mia vita, è un disco che lotta con gli artigli e si difende e spero parli anche alla comunità.
Cosa ci dobbiamo aspettare dal tuo live al Mi Ami e dai live che verranno?
Penso che sarà un live coerente al disco, ci sarà poca elettronica e tanto Femina farò il possibile per traghettare tutto quello che c’è dentro questo album, e poi al Mi Ami sarà divertente anche condividere il palco con altre artiste che amo come Emma Nolde, Joan Thiele e Alice Phoebe Lou. Sarà una serata speciale come sempre.
Ultimo album di cui ti sei innamorata:
Bon Iver “SABLE, fABLE”, Oklou “Choke Enough” e di vecchio “Pink Moon” di Nick Drake.