Mentre scrivo questo pezzo immagino diversi scenari, tipo Alessandro Michele rinchiuso in uno dei suoi palazzi romani che urla, agita i suoi capelli mai completamente puliti e lancia per aria i suoi millemila oggetti made in Porta Portese, oppure lo immagino mentre Jared Leto lo pettina e Harry Styles gli massaggia i piedi e lui li che racconta perché le big spender non hanno voluto partecipare alla sua sfilata couture epocale-geniale-pazzesca maledicendo il giorno in cui tutto gli è sfuggito di mano, quando credeva che bastava vestire da gattara chic qualche sua amica ricca e annoiata (si Lana, Florence, Dakota sto parlando anche di voi) per arrivare all’olimpo del sistema moda che è pronto a scaraventarlo giù.
Ma partiamo dall’inizio: Giugno 2020, piena pandemia Covid, Jacopo Venturini, passa dall’essere direttore merchandising&global markets di Gucci a CEO di Valentino, da allora ha supervisionato diversi cambiamenti chiave (?) nella leadership e nella creatività del marchio tipo mando via Piccioli ma prima distribuisco i designer interni in altre case di moda (vedi De Sarno mandato da Gucci a far cosa ancora non si sa) fino ad arrivare al 28 marzo 2024 quando nomina Alessandro Michele come direttore creativo del brand romano.
Subito dopo l’annuncio e qualche adv, Valentino registra un calo del 2% del fatturato e del 22% dell’utile di base per l’anno, ciò nonostante Kering ha acquistato una partecipazione del 30% in Valentino. (L’accordo comprendeva opzioni per Kering – attualmente in difficoltà nel rilancio del suo marchio di punta Gucci – per acquisire la piena proprietà del capitale azionario di Valentino tra il maggio 2026 e il 2028.)
Gennaio 2025: il debutto couture di Valentino visto da Alessandro Michele.
La collezione si chiama Vertigineux (vertigine in italiano) ed è composta da 48 look: non un’infinità, (chi fa la couture non può presentare meno di 25 look) che causa la vertigine proprio quando si constata l’incompiutezza di ogni possibile catalogazione, ma sufficienti per tradurre le ispirazioni del direttore creativo. È come se ogni abito fosse “un catalogo ininterrotto e potenzialmente una lista sgrammaticata che procede per accumulo giustapposizione. Quarantotto abiti: quarantotto liste. In ognuna di queste liste coabitano elementi materiali ed immateriali”.
Per Michele “è come se ogni abito richiamasse, per associazione, una pluralità di mondi interconnessi: una stratificazione febbrile e ininterrotta di riferimenti che ne fa esplodere l’unicità. Insomma tutto fumo negli occhi, un miliardo di belle parole che fanno presagire un pieno di quelli che difficilmente il mondo della moda dimenticherà.
Un inciampo dopo l’altro. Ma perchè? Come è possibile che ciò sia accaduto? Michele è lo stesso che ha portato Gucci da 3 a 10 miliardi di fatturato. Si è vero, ma Valentino non è Gucci.
Gucci è un brand senza storia stilistica (eccetto l’era Tom Ford) e quindi chiunque può aggiungere all’estetica di Gucci qualsiasi cosa perché tanto è un brand di borsette al contrario di Valentino che è invece l’emblema dell’eleganza e della femminilità, della struttura del corpo e del made in Italy.
Ora, senza troppi giri di parole, che come sapete, non mi piacciono: il nocciolo della questione è semplice quanto brutale: Michele ha portato su Valentino l’equivalente di un travestimento e non una trasformazione. E questo è un dato di fatto, un po’ come se prendessimo uno che vive nei centri sociali e gli dai le chiavi di Versailles.
Ha riproposto, con il consueto barocchismo narrativo vestito da intellettuale, lo stesso armamentario estetico del suo Gucci – zoccoli decorativi, occhiali oversize, folklore citazionista – senza tenere conto della grammatica e del linguaggio profondo della maison.
Ma Valentino non è il feed di Instagram da riempire con foto e reel di sé stessi. È un brand couture sinonimo di mestiere, storia, forma, precisione. Non è un set di travestimenti anni ’70.
Il risultato? La risposta del mercato non è stata all’altezza delle aspettative. In boutique, il ready-to-wear è sparito dalle vetrine: restano solo borse e accessori. Un campanello d’allarme che nel settore ha un significato ben preciso: l’abbigliamento non vende. E se l’abbigliamento di una maison couture non vende, c’è un corto circuito di fondo.
Il team Michele, simpatico come la sabbia nelle mutande, non ha saputo integrarsi con l’ambiente storico del brand, generando una guerra fredda tra passato e presente, peccato che il presente sia solo una brutta copia.
E se persino Giancarlo Giammetti, che Valentino lo ha visto nascere, commenta pubblicamente con ironia e fastidio sull’account Instagram Fashion Cricket è chiaro che il malcontento ha superato la soglia del tollerabile.
Insomma sono anni che dico che Alessandro Michele dovrebbe avere un brand tutto suo, perché le sue capacità di stylist o costumista o citazionista o tutto quello che vuoi misto al suo infinito ego andrà sempre a scontrarsi con il linguaggio e i codici di un brand.
Oggi diversi scenari sono aperti: è possibile che Venturini venga sostituito da Riccardo Bellini, ex amministratore delegato di Chloé e Maison Margiela, entrato in Mayhoola lo scorso gennaio, ma è chiaro che anche questa nomina dovrà passare per l’approvazione di Kering ovvero Luca de Meo, ex Renault fresco fresco di nomina.
Ricapitolando: Il tandem Venturini-Michele si è rivelato un fallimento, i venditori di Valentino si sognano i bonus perché non raggiungono budget e non vendono come vendevano prima, le borsette funzionano quando non hai niente da dire per davvero.
Quindi Il pubblico può essere educato, incuriosito, anche spiazzato. Ma non va mai ignorato. E soprattutto, mai dimenticare che ogni maison ha un linguaggio. Chi lo parla male o chi non lo capisce o meglio ancora chi mette se stesso davanti a tutto viene messo da parte. Anche se si chiama Alessandro Michele.
Valentino Alessandro Michele Valentino Alessandro Michele Valentino Alessandro Michele Valentino Alessandro Michele Valentino Alessandro Michele Valentino Alessandro Michele