It’s a Sin è la nuova miniserie HBO Max che affronta un tema ancora oggi difficile da trattare come l’AIDS. Lorenzo Peroni l’ha vista e questa è la sua review.
It’s a Sin per i più giovani sarà come guardare un film di fantascienza, per i più attempati un tuffo – amarissimo – nei ricordi. Non è semplice spiegare a chi non c’era cosa sono stati quegli anni per la comunità LGBT+ (e non solo): anni di grandissimo dolore, certo, di perdite improvvise, di paura, ma – soprattutto – di grandi silenzi: da parte delle istituzioni, dei medici, delle famiglie, dei malati, dei loro amici.
Negli anni ‘80 l’AIDS è la malattia dei gay. Negli anni ‘90 quella dei drogati. Tutte cose di cui vergognarsi. Peccati di cui tacere.
Ottobre 1985: Rock Hudson muore per complicazioni legate all’AIDS, ha cinquantanove anni. Pochi mesi prima, mentre si trova a Parigi per delle cure sperimentali non disponibili negli USA, tramite un comunicato stampa rende pubblica al mondo la sua malattia.
È una leggenda del cinema: per tornare negli Stati Uniti deve noleggiare un intero Boeing perché nessuna compagnia aerea è disposta a vendergli un biglietto. Pochi giorni dopo la sua morte, il Congresso degli Stati Uniti stanzia 221 milioni di dollari per sviluppare una cura per l’AIDS. Ronald Reagan, allora Presidente degli Stati Uniti, menziona pubblicamente la malattia solo nel settembre dell’85, quattro anni dopo l’inizio della crisi.
Quattro anni di silenzio. Pensate al COVID-19, taciuto per quattro anni. Non c’entra niente direte voi. Non importa, fate lo stesso uno sforzo: quattro anni. In quegli anni parlare pubblicamente di AIDS è un affronto.
Una dichiarazione di solidarietà verso gli appestati. Tra le prime a esporsi c’è Liz Taylor, amica e compagna di Rock Hudson, che negli anni ha donato milioni di dollari in beneficenza, sfidando i media che la attaccano, venendo abbandonata da soci in affari e amici: «I don’t give a shit what people think», dichiara in un’intervista. Ma questa è un’altra storia, o perlomeno un’altra pagina.
Con It’s a Sin (su Channel 4 e dal 18 febbraio su HBO Max) Russell T Davies scrive un’opera importante che Peter Hoar riesce a dirigere alla perfezione, forte di un cast di attori capitanati da Olly Alexander, front leader degli Years&Years. Con lui Omari Douglas, Callum Scott Howells, Lydia West (Years and Years, Dracula) e Nathaniel Curtis.
È il 1981, nell’Irlanda del Nord l’omosessualità è ancora un reato, in Scozia non lo è più da solo un anno. In inghilterra lo è stata fino al 1967. I giovani protagonisti di It’s a Sin vivono, sognano, fanno progetti, molti di loro non riusciranno mai a realizzarli.
Olly Alexander è Ritchie, un aspirante attore che contravvenendo alle aspettative della famiglia lascia gli studi di legge per tentare la carriera artistica – il suo look un omaggio a Neil Tennant dei Pet Shop Boys nel video di It’s a Sin, che dà il titolo alla serie.
A Londra, lontano dai genitori, trova un gruppo di amici con cui non deve più nascondersi: la comunità LGBT+ diventa uno spazio libero, sicuro. I corpi esultano, la giovinezza esplode nei piaceri carnali, i corpi diventano performance di liberazione.
Dagli Stati Uniti iniziano ad arrivare delle notizie preoccupanti, una malattia – misteriosa e letale – si sta diffondendo tra gli omosessuali. Ma l’America è lontana e quella piaga non fa paura: la vita non può aspettare e deve essere vissuta, non c’è spazio per nessun timore, è – semplicemente – qualcosa che riguarda “gli altri”.
Ma ben presto, anche in Europa, quegli spazi di libertà e liberazione vengono – letteralmente – invasi dal virus, e la paura si fa strada da sé, in maniera silenziosa ma prepotente.
Colin (Callum Scott Howells) lavora in un negozio di sartoria, è timido, impacciato, osserva tutto con curiosità da un angolo di mondo silenzioso. Viene preso sotto l’ala di Henry (Neil Patrick Harris), che in una città piena di insidie e pericoli gli fa da mentore, lo protegge; gli mostra che un’altra vita è possibile, che due uomini possono amarsi senza vergogna, che non è peccato.
Fino a quando un giorno Henry scompare nel nulla, nessuno sa più niente di lui. Dopo numerosi tentativi Colin scopre che fine ha fatto l’amico, è in ospedale, ma ancora non capisce perché. La malattia inizia a colpire gli affetti, le persone vicine: non è più qualcosa che riguarda “gli altri”. I protagonisti imparano a costo carissimo che “gli altri” siamo noi.
Dopo Queer as Folk, Cucumber/Banana, A Very English Scandal e Years and Years, Russell T Davies riesce di nuovo a scrivere pagine di grandissimo equilibrio e intensità emotiva, riuscendo a non cadere mai nel melodramma, nel ricatto emotivo, nulla è gratuito, su tutto sovrasta una commovente sincerità.
C’è una scena, tra le tante che colpiscono per la lucidità e la franchezza: Jill (Lydia West) è in cucina, la malattia ha colpito un amico della compagnia, lei è l’unica a saperlo.
Ritchie è chiassoso come al solito, Colin taciturno ma grato per quell’angolo di mondo che lo ha accolto, tutto sembra normale. Notizie sull’HIV e sull’AIDS non ce ne sono. Jill chiede anche informazioni a un medico, ma questi le dice che non sono affari che la riguardano.
E in cucina, dopo che l’amico infetto è uscito di scena, la ragazza non riesce a non guardare la tazza da cui lui poco prima ha bevuto: la lava con acqua bollente e una dose di detersivo spropositata.
La nasconde in dispensa. Ma di notte il pensiero è troppo forte, un tarlo velenoso. Si deve alzare, distruggerla e buttarla. Deve proteggere ad ogni costo i suoi amati coinquilini da un male invisibile.