Maurizio Fiorino non fa sconti a nessuno nel suo nuovo romanzo, intitolato: “Macello”. Edito da e/o, candidato al Premio La Cava e pronto per essere tradotto anche in Germania.
L’autore racconta in 160 pagine la storia di un padre anaffettivo che sparisce e di un figlio che non ha gli strumenti per fermarsi a vivere la bellezza ogni volta che gli passa davanti agli occhi.
La copertina di “Macello” è molto bella, perché hai scelto questo titolo che non evoca certamente un luogo di vita o bellezza?
Perché esistono anche i luoghi di morte e bruttezza e ci tenevo a raccontarli col dovuto rispetto. Siamo obbligati a vedere sempre il bello di tutto, ma il brutto, se ti volti dall’altra parte, non scompare. In Macello tutto è brutto, tranne la “no man’s land” – per citare un romanzo che mi ha segnato, “Il giunco mormorante” di Nina Berberova – che abita dentro i protagonisti, nonostante la bruttezza.
C’è tanto non detto in questo romanzo, soprattutto quando si sfiora la felicità, ad esempio quando Biagio è in macchina con suo padre e vede per la prima volta il mare. Che valore ha il silenzio in questo romanzo?
Il non detto e l’assenza sono, forse, i protagonisti assoluti di questo romanzo. Più delle persone. In Macello tutto è assente, come sospeso: il paese è fantasma, il padre di Biagio scompare, la madre non c’è mai stata. Anche chi ama e viene amato, alla fine, fugge via, dall’amata o da sé stesso. Ma è inevitabile. Chi va via, non sparisce: lascia dei vuoti.
Si racconta la famiglia, ma soprattutto il desiderio di famiglia. E soprattutto descrivi molto bene di quanto a volte i figli si sentano sbagliati.
La famiglia genera figli e poi fa di tutto per inghiottirli, come se fossero sbagliati. Non conosco, ad oggi, gente la cui vita non abbia viaggiato sullo stesso treno preso a un certo punto in poi, durante l’infanzia. Forse è così che deve andare il mondo, non so, ma mi sembra la prima, enorme, voragine dentro di noi.
In questo libro, come hai detto, i personaggi sono descritti dal punto di vista estetico in maniera brutale, sono brutti, sia quando parli del padre di Biagio che di sua moglie, e diciamo che nella vita reale questa cosa non avviene. Voglio dire è molto improbabile che io dica che mio padre o mia sorella sono brutti. Per te la scrittura è il luogo dell’indicibile?
La scrittura, per me, deve lasciare una sensazione di prurito interiore. Il romanzo è un luogo dove il lettore deve andare a fuoco, perciò l’autore, oltre a irritare, deve sapere accendere la miccia. Lo scrittore è un artista, non è un politico o un moralizzatore, deve scrivere storie, possibilmente di qualità, e certo, provare a dire l’indicibile. Se ci riesce, buon per lui.
Trovo che questa frase racconti perfettamente il travaglio interiore di Biagio, il protagonista, figlio unico e cresciuto da solo con il padre, a suon di mancanze: “Avevo quasi sedici anni e nessuno che mi baciasse gli occhi mentre dormivo”. Ma anche Bruno ha un travaglio interiore, che lo porta ad essere dolce solo con le bestie morte nel retro bottega, con una verità che nasconde e che noi scopriremo solo nelle ultime pagine. Quanto questi personaggi degli anni 70, in un contesto arcaico, sono ancora attuali?
Se parliamo di anaffettività, autosabotaggio, dell’impossibilità di comunicazione tra quello che si prova e il modo in cui lo si dice, e infine l’incapacità di ascoltarci, credo di sì.
Tu dici che questo è il tuo romanzo più costruito, eppure nonostante sia un romanzo breve, sono condensate tante storie, tanti spunti, tante riflessioni. Qual è la formula per tenere insieme una storia così articolata in 150 pagine?
Come scrittore, bisogna capire quando è il momento di mettersi da parte. A me interessa sfidarlo, il lettore, lasciargli qualche dubbio, accompagnarlo fino a un burrone e poi spingerlo giù. Non dovrebbero esistere zone di comfort, nella scrittura. Quelle, le abbiamo nella vita reale. Ho impiegato quattro anni della mia vita a scrivere questo romanzo, l’ultimo dei quali trascorso a riscriverlo, a macellarlo, parola dopo parola, togliendo l’eccesso.
Ci sono dei momenti di luce in questo romanzo e sono due: l’incontro di Biagio con l’arte tra le pagine di un libro che gli viene regalato (e poi sottratto) e quando per la prima volta vede il mare. La bellezza e la cultura possono salvarci davvero?
No, e non devono farlo. La favola della bellezza che salva l’umanità mi sembra, ecco, l’alibi di chi rimane immobile ad attendere, mentre il mondo corre. È come dire: dio ci salverà. Non può salvarci un’entità. Ci fa sentire sicuri, protetti, il fatto di credere, forse, ma ci salviamo da soli. Se vogliamo salvarci.
L’arte torna a fare capolino, quando Biagio incontra Alceo, che è un artista, e trascorre finalmente dei momenti di grande spensieratezza. Perché Biagio non segue neanche stavolta la felicità, perché non cede al suo richiamo?
Perché Biagio decide di restare. La sua, per usare le parole di Vito Teti, è una “restanza”. Semplicemente, lui dice: “io esisto qui, non esisto in nessun altro luogo”. Esiste anche l’infelicità, nella vita, e volevo raccontarla.
Come sono le donne in questo Macello?
Come gli uomini, bruttissime.
Nietzsche diceva che “bisogna avere in sé il caos per partorire una stella che danzi”. Cosa genera questo macello?
Il non detto. Basterebbe parlarsi, anche addosso, anche prendendosi a cazzotti, ma farlo sempre, togliere fuori, liberarsi.
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