Sam Waxman, fotografo e artista queer, crea immagini che esplorano con profondità e ironia temi complessi come il desiderio, la sensualità e la vulnerabilità.
Con un approccio che spazia tra il personale e il collaborativo, Sam Waxman trasforma momenti intimi in narrazioni visive che sfidano stereotipi e convenzioni, spesso con un tocco di humor nichilista. La sua pratica artistica è profondamente radicata nella sua identità e comunità queer, che considera una fonte di forza creativa e consapevolezza unica.
Attraverso la fotografia, Sam Waxman cattura dettagli unici del corpo maschile, dai movimenti inconsapevoli alle emozioni più nascoste, creando un dialogo visivo tra fotografo e soggetto che trasuda autenticità e fiducia. Le sue immagini non solo esplorano la sensualità in tutte le sue sfaccettature – carnali, divertenti, persino imbarazzanti – ma spesso affrontano, anche indirettamente, questioni politiche e sociali legate alla rappresentazione dei corpi queer in una società storicamente repressiva.
In questa intervista, Sam Waxman si addentra nei processi creativi che rendono la fotografia un medium unico per esplorare emozioni, identità e desiderio, offrendo una prospettiva intima sul suo lavoro e sulla sua visione artistica.
Qual è il ruolo della sensualità e del desiderio nelle tue opere? Come bilanci questi elementi con il racconto visivo?
C’è così tanto nella sensualità e nel desiderio che mi affascina e che voglio esplorare, e spesso ha poco a che fare con il sesso. Sensualità e desiderio non sono esperienze uniche: sono concetti che racchiudono alcune delle nostre emozioni più cariche (e, a volte, meno cariche), siano esse carnali, goffe, euforiche, divertenti o imbarazzanti. In alcune opere, mi piace affrontare questi temi da una prospettiva autentica e profondamente personale. Altre volte, invece, realizzo progetti volutamente elaborati che trasformano queste esperienze in grandi barzellette nichiliste.
In che modo la tua identità e il tuo legame con la comunità queer influenzano la tua fotografia?
Essere queer è il dono più straordinario che la vita mi abbia dato.
Nonostante le sfide che affrontiamo, credo che sperimentiamo una gioia, una libertà e una consapevolezza di noi stessi che la maggior parte delle persone cis-etero non può nemmeno immaginare.
Come persone queer, siamo consapevoli della nostra forza come collettivo: dobbiamo esserlo. L’intenzionalità delle comunità scelte in cui viviamo rende impossibile darle per scontate. Spesso serve un intero villaggio per realizzare le opere che immagino, e sono infinitamente grato ai miei amici e collaboratori, che credono nella mia visione (e nei miei voli pindarici) al punto da lavorare con me con costanza. Non cerco mai esplicitamente di creare arte “queer”. Posso solo lavorare partendo dalla mia esperienza e dalla mia prospettiva, e questa è apertamente queer.
Molte delle tue immagini esplorano temi come desiderio e vulnerabilità. In che modo la fotografia, rispetto ad altre forme artistiche come la scultura, ti permette di indagarli in modo diverso?
La fotografia, per me, è quasi sempre un processo profondamente collaborativo.
Mi permette di lavorare con persone straordinarie, di accedere a spazi e mondi lontanissimi dalla mia sfera personale, e mi dà il privilegio di documentare le vite delle persone nella mia comunità.
Che io stia lavorando con un intero team creativo in una grande produzione, o con un modello in un’intima sessione one-to-one, l’esperienza è sempre altrettanto intima.
La scultura, invece, è una pratica più solitaria e introspettiva. Vengo da un background di saldatura e lavorazione dei metalli, quindi i miei metodi sono estremamente meccanici e strutturati, al punto da sembrare più un assemblaggio che una scultura. Ho una difficoltà incredibile a stare fermo: i miei pensieri sono più chiari quando sono impegnato in compiti fisici e ripetitivi. In questo senso, scolpire o assemblare le mie opere è una parte introspettiva fondamentale della mia pratica artistica.
Quanto conta il contesto politico e sociale nelle tue opere che ritraggono la nudità maschile, specialmente in una società repressiva verso il corpo gay?
È inevitabile, che io lo voglia o meno. Non sempre cerco di fare dichiarazioni politiche esplicite (anche se a volte sì), ma fare qualsiasi cosa in pubblico come persona queer è già di per sé un atto politico, soprattutto in un mondo che storicamente tende a silenziare e cancellare le identità queer.
Un esempio è la mia opera performativa e pittorica “Red-Blooded American Faggot”, creata in risposta alla sparatoria al Club Q di Colorado Springs nel 2022 e al clima di crescente retorica anti-LGBTQ che ne è seguito. Detto questo, non parto mai con l’intenzione primaria di creare opere “politiche”. Se il mio lavoro con i nudi maschili viene percepito come politico, penso che rifletta un problema culturale più ampio, che va oltre me come individuo.
Le tue opere spesso catturano un’intimità unica tra te e il soggetto. Come riesci a costruire quel livello di fiducia?
Non do mai per scontato il livello di fiducia che una persona deve avere per mostrarsi vulnerabile davanti alla fotocamera. È qualcosa che considero un privilegio incredibile. Non sono naturalmente una persona molto socievole, quindi ho dovuto lavorare intenzionalmente per migliorarmi in questo senso.
Cerco sempre di incontrare le persone dove sono, sia metaforicamente che letteralmente, e di connettermi in modo autentico.
Il mio lavoro è profondamente personale ed emotivamente impegnativo, quindi chiunque ne faccia parte lascia un segno dentro di me, e io mi fido di loro tanto quanto loro devono fidarsi di me.
Cosa trovi più interessante da fotografare in un uomo?
I movimenti, i tic e le espressioni facciali che compiono senza rendersene conto.
Se potessi fare un servizio fotografico con una figura storica, chi sceglieresti e cosa vorresti catturare di loro?
Ho sentito dire che H.G. Wells era solito fare sesso sopra le recensioni negative dei suoi libri per poi dar loro fuoco. Fotograferei sicuramente quello.