Sergio Bonilla è un artista che ci precipita nel cuore pulsante della carne, là dove il corpo si fa campo di battaglia e il desiderio, anziché pacificarsi, si incendia in una vertigine di trasgressioni.
L’opera di Sergio Bonilla non è una semplice rappresentazione, ma un’immersione abissale in ciò che la società, con malcelato orrore, tenta di domare: l’eccesso, l’abietto, quella proliferazione incontrollabile che sgretola le certezze dell’ordine costituito. Bonilla, come un moderno alchimista, trasforma le sue tele in specchi deformanti, capaci di riflettere la nostra stessa immagine distorta, sporcata dal grottesco, eppure, innegabilmente, viva.
Formatosi tra le strade vibranti di Colombia e le aule rarefatte di Parigi, Bonilla ha saputo fondere l’urgenza materica della creazione con la profondità del pensiero critico. Il suo non è un discorso univoco, bensì un continuo dialogo tra il viscerale e il concettuale, tra il gesto istintivo che macchia la tela e la riflessione che ne sonda le pieghe più oscure. La sua arte, intrisa di riferimenti colti – da Caravaggio a Pasolini, da Deleuze a Preciado – non si limita a sedurre o turbare; essa contamina, inquieta, si fa detonatore di una rivoluzione intima che mina le fondamenta del nostro sguardo.
Nell’opera di Bonilla, il corpo maschile, lungi dall’essere un’icona di forza e virilità, si rivela un territorio fragile, poroso, costantemente riscritto dalle cicatrici del desiderio e dalle ferite della storia. Frammentato, ricomposto, immerso in atmosfere ambigue, esso diviene il luogo di una metamorfosi perpetua, un invito a superare le gabbie identitarie e ad abbracciare la vertigine del divenire.
Non si tratta semplicemente di provocare, ma di aprire varchi, di creare spazi di resistenza dove il sé possa finalmente disancorarsi dalle narrazioni dominanti e reinventarsi, incessantemente, in un perpetuo atto di libertà. Perchè, in fondo, l’arte di Sergio Bonilla è un invito a danzare sull’orlo dell’abisso, a lasciarsi sedurre dalla vertigine della carne, a scoprire, infine, che la vera trasgressione risiede nella capacità di reinventare noi stessi.

Il tuo percorso artistico ti ha portato dalla Colombia a Parigi. Come ha influenzato questo cambiamento geografico la tua esplorazione del corpo e della sessualità? Hai notato un cambiamento nel modo in cui il tuo lavoro viene percepito in questi due contesti diversi?
La mia esplorazione del corpo e della sessualità si è approfondita man mano che mi sono aperto a svelare i miei stessi flussi di desiderio, riconoscendo che il desiderio è molteplice—mai fisso, mai con lo stesso volto. Diciamo che mi sono anche lasciato andare ai piaceri del libertinaggio parigino—haha.
In Colombia, i miei dipinti venivano percepiti come atti di sfida, rotture in una società che silenzia l’eccessivo e il grottesco. Lì, il corpo abietto è storicamente un corpo nascosto, quindi mi sono confrontato con la materialità grezza della carne in un contesto in cui la sessualità è modellata dalla morale cattolica, dal machismo e dal peso persistente della clandestinità.
A Parigi, la repressione assume una forma più insidiosa: non è una repressione di occultamento, ma di estetizzazione. Qui, il desiderio è stilizzato, intellettualizzato, spesso sterilizzato all’interno del discorso teorico e della storia dell’arte. Il mio lavoro ha assorbito questa dualità, navigando tra la tensione del grezzo e del raffinato, del viscerale e del concettuale—rimanendo sfidante, ma diventando più incisivo.
Ma al di là di come il mio lavoro viene percepito, ciò che rimane invariato è il mio impulso a rappresentare il corpo come un luogo di trasformazione—mai fisso, mai statico, sempre in divenire.

L’Università Nazionale della Colombia e Parigi sono due ambienti accademici molto diversi. Cosa hai imparato da ciascuna esperienza?
L’Università Nazionale della Colombia e Paris VIII sono due mondi governati da logiche profondamente diverse, e il mio passaggio attraverso entrambi ha lasciato tracce profonde nella mia pratica. In Colombia, l’accademia d’arte era ancorata a una relazione materiale e corporea con il mestiere—pittura, disegno, incisione—dove la creazione era sempre un atto di presenza, di resistenza. In un’università pubblica plasmata dalla storia convulsa di un paese, l’arte non era mai mero ornamento o lusso; era un campo di battaglia, una rottura necessaria con la tradizione, un mezzo di affermazione.
A Parigi l’atmosfera è cambiata. L’arte veniva analizzata attraverso le lenti della filosofia, della psicoanalisi e della semiotica. Le immagini non venivano semplicemente create; venivano interrogate, collocate all’interno di architetture teoriche, spinte a parlare oltre sé stesse. Questa immersione nel pensiero critico ha frantumato i miei modi di vedere, espandendo la mia pratica oltre il puramente sensoriale.
Ho capito che il mio lavoro non poteva solo sedurre o ferire visivamente—poteva anche entrare in dialoghi più profondi, nel dominio del testo, degli archivi e delle genealogie visive più ampie.
Se in Colombia ho imparato che dipingere è un gesto urgente e incarnato, a Parigi ho imparato a costruire un discorso intorno ad esso. Ora entrambi i mondi coesistono nella mia pratica: l’impulso grezzo di creare immagini che colpiscono la carne e la compulsione di farle risuonare oltre la superficie, aprendo domande e destabilizzando certezze.

La tua arte esplora la sessualità umana e le comunità emarginate. Quanto di questa esplorazione deriva dall’esperienza personale e quanto dall’osservazione del mondo che ti circonda?
“Scopo e poi creo!” diceva un famoso filosofo—o almeno credo—haha.
L’arte per me non è un esercizio intellettuale distaccato ma un atto viscerale, un catalizzatore della macchina desiderante. Il desiderio è sia vissuto che osservato.
Il mio lavoro è sicuramente alimentato dall’esperienza personale, ma l’esperienza non è mai solo individuale—si mescola al collettivo, alla storia, alle atmosfere cariche attraverso cui ci muoviamo. Non mi limito a rappresentare corpi emarginati; li abito, li distorco e li amplifico, spingendoli verso l’eccesso, navigando tra le maree del desiderio.

Nel rappresentare il desiderio e l’abiezione del corpo, quali immagini o riferimenti culturali ti guidano? Ci sono artisti, film o movimenti che hanno influenzato la tua visione?
Ho una debolezza per le immagini che restano sotto pelle—quelle che seducono e disturbano allo stesso tempo. Sono attratto da artisti e registi che trattano il corpo come un campo di battaglia: Luis Caballero (uno dei miei artisti colombiani preferiti), Otto Dix, Caravaggio, Pasolini, Fassbinder (di Querelle), Jenny Saville, Mapplethorpe e Bacon. Il loro lavoro affronta la crudezza della carne, il peso della storia, la violenza e la tenerezza inscritte nel corpo.
Mi affascina anche la filosofia—Gilles Deleuze e Paul Preciado—pensatori che smantellano le strutture rigide dell’identità e del desiderio. Nel cinema mi ispirano i movimenti Queercore di Bruce LaBruce: profondamente politici ed enigmaticamente inquietanti. Erotismo e sovversione; bellezza e abiezione; grottesco e sacro—tutte queste tensioni alimentano il mio lavoro.

Il tuo lavoro gioca con l’eccesso, il grottesco e l’erotismo. Cosa ti affascina del corpo abietto?
Il corpo abietto è il luogo ultimo della trasgressione. Inquieta perché resiste al contenimento, perché trabocca, si decompone, desidera oltre i limiti imposti dall’ordine sociale.
Sono affascinato da questa liminalità, da ciò che i corpi fanno quando sfuggono alla disciplina, quando si abbandonano al piacere o alla rovina.
C’è un potere catartico nell’eccesso, nel spingere il corpo oltre il decoro, oltre la proprietà. Il grottesco, per me, non riguarda solo l’orrore—è liberazione, è esposizione della fragilità dei sistemi che cercano di regolare la carne e il desiderio.

Pensi che l’arte abbia il potere di trasgredire, di creare una rottura politica o sociale?
Assolutamente. L’arte, quando rifiuta di conformarsi, quando sfida, quando ferisce o seduce in modi che destabilizzano, è intrinsecamente politica.
Il mio lavoro non è un manifesto esplicito, ma resiste alla normatività, mette in discussione le narrative dominanti e afferma corpi e desideri che spesso sono relegati ai margini.
Credo in un’arte che contamina, che disturba, che provoca. Non al servizio del valore dello shock, ma nella ricerca di qualcosa di più profondo—un’arte che inquieta, che interrompe la percezione e che scolpisce spazi di resistenza.

Infine, cosa c’è nel tuo futuro? Quali direzioni stai esplorando nel tuo lavoro?
Ultimamente sto sperimentando l’intersezione tra corporeità e archivio—osservando rappresentazioni storiche del desiderio e tracciando i modi in cui la queerness, l’eccesso e l’abiezione sono stati visualizzati nel corso del tempo. Voglio approfondire ulteriormente questo dialogo tra passato e presente, tra carne e immagine, tra desiderio e documentazione.
Non so esattamente dove mi porterà questo percorso, ma so che continuerò a creare, a esplorare le ferite e i piaceri del corpo e a inseguire i fantasmi del desiderio.

Le comunità emarginate sono spesso rappresentate attraverso stereotipi o lenti esotizzanti. Come lavori per evitare di cadere in queste trappole nella tua arte?
La trappola nascosta nel rappresentare le comunità emarginate sta nel credere che la semplice categorizzazione e visibilità offrano una soluzione.
È facile cadere in una forma di stereotipizzazione, dove il soggetto diventa un caso di studio, esposto allo sguardo pubblico come oggetto di analisi piuttosto che come forza viva e mutevole. Resisto a questo rifiutando identità fisse, rifiutando di inquadrare il desiderio e la marginalità come immagini stabili e facilmente digeribili.
La nozione di società liquida di Chomsky ci ricorda che identità e desideri esistono in uno stato di flusso—non sono ritratti fissi, ma forze inquietanti, che si scontrano, mutano e si disfano. Il mio lavoro non cerca di documentare o racchiudere il cosiddetto “soggetto marginale” nei limiti del suo ambiente o nel peso della sua condizione storica. Invece, sono attratto dal catturare flussi, tensioni e momenti di divenire—modi di essere che superano le definizioni, che si disgregano e si ricompongono, sfuggendo sempre alla cornice.

Viviamo in un’epoca in cui il corpo e la sessualità sono sempre più esposti nel mondo digitale, spesso in modi plasmati da un consumo rapido. Come si posiziona la tua arte in questo contesto?
In un mondo in cui corpi e desideri vengono consumati senza fine, scorsi rapidamente e frammentati in pixel, il mio lavoro resiste a questa accelerazione insistendo sulla lentezza, sull’attrito, sul peso della carne.
La cultura digitale appiattisce il corpo in un’immagine ottimizzata per la gratificazione istantanea, ma la pittura—con le sue texture, la sua materialità—rifiuta quel tipo di immediatezza. Esige contemplazione, trattiene lo sguardo in ostaggio e reintroduce opacità dove tutto è atteso come trasparente e disponibile.
Allo stesso tempo, riconosco che oggi il desiderio è plasmato dagli schermi, dagli algoritmi, dai modi in cui mettiamo in scena e curiamo la nostra stessa visibilità. Piuttosto che rifiutare questo quadro digitale, ne assorbo le distorsioni. Le mie figure glitchano, si dissolvono nell’eccesso, riflettono i modi in cui i nostri corpi sono mediati, modificati e riconfezionati—pur reclamando la loro crudezza. Se il mondo digitale cerca di sterilizzare e ottimizzare il desiderio, il mio lavoro risponde rendendolo indisciplinato, spingendolo verso il grottesco, l’irrisolto, l’incontenibile.

Il tuo lavoro invita lo spettatore a confrontarsi con temi ancora considerati tabù. Hai mai incontrato forti resistenze o reazioni intense alle tue opere? Come affronti questi confronti?
Le mie immagini sono catalizzatori di affetti—che siano gioiosi, inquietanti o profondamente viscerali. Ho sempre trovato un modo per godere di queste reazioni intense, di queste resistenze, perché l’arte, nel suo cuore, è fatta per accendere confronti—che siano estetici, politici o profondamente legati al desiderio. Affrontare un insieme di affetti (come direbbe Deleuze), stare davanti a un dipinto e sentire qualcosa cambiare dentro di te significa aprirsi al divenire—divenire con ciò che trovi abietto, distante o estraneo a te stesso. Questa tensione, questo attrito è dove inizia il dialogo, sia nella sfera pubblica che negli angoli più intimi della propria psiche.
E a volte la resistenza assume forme piuttosto… espressive. Una volta qualcuno ha persino urinato sulla vetrina della galleria dove era esposto uno dei miei dipinti—forse un tributo involontario agli impulsi corporei che il mio lavoro sembra provocare. Haha.

Nel provocare una riflessione critica, miri a destabilizzare lo sguardo dello spettatore o a creare uno spazio per il riconoscimento? Pensi che l’arte possa davvero spingere i confini delle norme sociali?Non sono necessariamente forze opposte ma piuttosto due intensità coesistenti all’interno del campo affettivo della mia opera. Il mio lavoro non si limita a provocare una riflessione critica ma interrompe i modi abituali di vedere e percepire. Non si tratta solo di scioccare o disorientare lo spettatore—si tratta di rompere con i regimi dominanti della visibilità, creando rotture percettive, aprendo nuovi modi di sperimentare e, così facendo, disorganizzando le strutture semiotiche dominanti che dettano come si può vivere, desiderare e vedere.
Il riconoscimento è invece un paradosso all’interno di questo quadro. Se il riconoscimento significa riaffermare un’identità già stabilita, allora rischia di reinscrivere proprio quelle norme che la mia arte cerca di sfuggire. Creo per aprire spazi dove le soggettività non vengono confermate ma ricostituite in nuovi modi—si tratta di riconoscersi in un processo di divenire, trovarsi nel flusso delle intensità, delle molteplicità e dei desideri come entità in continuo cambiamento.
Credo che le norme sociali non siano strutture monolitiche e rigide che si possono semplicemente trasgredire ma forze micropolitiche che possono essere interrotte, sovvertite e modulate dall’interno, in una trasformazione quasi impercettibile. Un’opera d’arte non rovescia un sistema dall’oggi al domani, ma può innescare rivoluzioni molecolari—cambiamenti sottili ma profondi nel modo in cui ci relazioniamo gli uni agli altri e nel modo in cui il desiderio circola ed è codificato e ricodificato.

Il tuo lavoro sembra oscillare tra il visibile e l’invisibile. Qual è l’elemento più nascosto che hai cercato di rivelare attraverso la tua arte?
Ciò che è nascosto è spesso ciò che brucia di più. Nel mio lavoro cerco di rivelare l’eccesso che la società doma—il corpo non contenuto, il desiderio non governato, il piacere che si riversa oltre i suoi confini assegnati. Sono attratto da ciò che si nasconde nell’ombra della normatività: la vergogna che si contorce in desiderio, la violenza incorporata nella passione, il modo in cui l’amore stesso può essere grottesco.
Forse l’elemento più nascosto che ho cercato di svelare non è solo la carne, ma la forza sotto di essa—la tremante tensione tra estasi e decadimento, tra rapimento e annientamento.

Ci sono simboli o ossessioni ricorrenti nel tuo lavoro? Qual è il loro significato più intimo per te?Certamente—sono Vergine con ascendente Scorpione e luna in Scorpione, quindi se non sono ossessionato da qualcosa, significa che manca qualcosa. L’ossessione è la corrente sotterranea del mio lavoro, la forza gravitazionale che detta dove andrà il mio pennello dopo.
Ultimamente sono stato fissato con le tavolozze dai toni alti, qualcosa che non era così presente nei miei dipinti prima. Prima di questo, era il centauro power-bottom—ma con la testa di cavallo e il corpo di un uomo, un’inversione dell’ideale virile della mitologia classica.
L’oscurantismo e Aleister Crowley hanno perseguitato il mio ultimo trittico, così come i tarocchi e l’astrologia continuano a permeare la mia immaginazione. I simboli non sono mai statici; mutano, ricorrono, possiedono nuovi significati. Forse la mia prossima ossessione nascerà da questa conversazione. Forse una nuova serie si sta già dispiegando nella mia mente con ogni modifica e svolta della mia macchina del desiderio.

Nella tua pratica, il corpo maschile è mai stato un territorio di esplorazione, vulnerabilità o riscrittura? Se sì, quali aspetti hai cercato di sfidare o evidenziare?
Il corpo maschile nel mio lavoro non è mai un’entità stabile—è un campo di battaglia, un luogo di tensione, crollo e reinvenzione. Sono attratto dalle sue vulnerabilità, dai suoi eccessi, dalla sua bellezza grottesca.
Cerco di smantellare le rigide posture della mascolinità, allungando, distorcendo e frammentando il corpo finché non diventa qualcos’altro—qualcosa di più fluido, più poroso, più incerto della mascolinità stessa.
La mascolinità è una frattura. Un crollo. Una contraddizione in movimento.
Desiderio e abiezione spesso coesistono nelle mie rappresentazioni della forma maschile. Sfido l’ideale glorificato e sanificato del maschile come razionale e forte esponendone la crudezza: corpi disfatti dal piacere, dalla violenza, dal tempo, dai loro stessi paradossi di genere. Il corpo maschile non è solo un recipiente di potere; è anche un paesaggio di fratture, di estasi, di annullamento.

Nel tuo lavoro, il corpo maschile appare spesso frammentato, riassemblato o immerso in atmosfere ambigue. È questo un modo per rivelare nuove possibilità espressive o per riflettere su una tensione interna?
La frammentazione non è solo una scelta estetica; è una necessità. Rompere il corpo significa aprirlo a nuove possibilità espressive, rivelarne le tensioni, le contraddizioni, la sua natura porosa. Non sono interessato a riaffermare una mascolinità solida e monolitica. Preferisco portarla al limite, dissolvere i suoi confini, esporne le vulnerabilità.
Quando disegno da modelli dal vivo, il mio sguardo e la mia mano spesso seguono i sentieri lussuriosi del desiderio, tracciando le curve del corpo con un’urgenza quasi istintiva. Ma gran parte del mio lavoro nasce da un universo liminale e immaginario—dove i corpi non sono solo osservati ma reinventati.
Pelle, muscoli, postura—sono tutti luoghi di tensione, seduzione e trasformazione. L’atto di disegnare il corpo è un rituale preparatorio, un modo per scomporlo prima di ricostruirlo sulla tela. Le linee che seguo in uno schizzo veloce spesso diventano fratture, distorsioni, echi di qualcosa di più fluido, più instabile. Lascio che il corpo mi guidi, ma solo per poterlo poi disfare, allungarlo oltre il riconoscimento, spingerlo verso qualcosa di più multiplo, più impossibile.

Le tue figure sembrano spesso esistere in un limbo tra movimento e immobilità. Pensi che la sessualità maschile sia ancora intrappolata in un immaginario rigido o vedi un cambiamento nelle rappresentazioni contemporanee?
Le mie figure fluttuano in un limbo tra movimento e immobilità perché il desiderio stesso non è mai statico—sfarfalla, resiste alla definizione, sfugge al contenimento. Sporca piccola creatura che è! La sessualità maschile, tuttavia, è stata a lungo intrappolata in immaginari rigidi, scolpita dal potere, dal controllo e dall’illusione della padronanza sul corpo.
Ma qualcosa sta cambiando. Si stanno formando delle crepe nell’immagine monolitica della mascolinità. Le rappresentazioni contemporanee stanno cominciando ad abbracciare la fluidità, l’instabilità e la contraddizione. Tuttavia, i fantasmi del passato persistono: sguardi disciplinari, archetipi ereditati, la paura dell’eccesso, la paura dell’ignoto.