Gira la moda: Il gioco delle sedie non finisce più.

Nel 2025, ma forse dovrei dire negli ultimi 10 anni, la moda ha avuto più direttori creativi che idee. Il calendario degli annunci è pieno raso un po’ come quello delle capsule (orrende) di Jacquemus, ma con meno leggerezza e più angoscia da trimestrale.

I CEO giocano a Risiko con gli stilisti e i consumatori seguono il via vai come le signore di una certa guardano beautiful dopo pranzo, ma con la stessa sensazione che tutto cambi perché nulla cambi davvero.

Alessandro Michele, il mistico visionario con la sindrome di D’Annunzio che ha preso l’MDMA, è arrivato da Valentino, brand che aveva appena trovato una specie di equilibrio con Piccioli e che ora si ritrova a fare da palcoscenico a un’estetica che conosciamo fin troppo bene: drappeggi, poesia a caso, tappeti orientali, e perché no una passerella che pareva il bagno di un night di Amsterdam.

Genio? Forse per chi non ha referenze. Innovatore? Non più. Ma nel vuoto d’immaginario collettivo attuale, meglio una copia di sé stessi che il nulla cosmico. Ed è forse per paura che il vecchio Valentino venga dimenticato per sempre che il fondatore Garavani insieme al suo partner di vita Giammetti ha allestito una mostra tutta rossa, tutta Valentino, tutta moda, tutta vera. 

Pierpaolo Piccioli, l’ultimo romantico, ha preso il posto più radioattivo dell’intero sistema: Balenciaga. Lì dove l’estetica post-umana, post-bellezza, post-tutto di Demna aveva creato un culto, Piccioli porterà il suo umanesimo sartoriale? Sicuramente proverà a far dimenticare gli scandali di certe adv, ma non è detto che non verrà fagocitato dal sarcasmo nero pece che aleggia ancora su quel marchio. Lo scopriremo a Ottobre. Intanto, ci si chiede se abbia accettato per passione o per spirito di martirio. (Lasciatemi sognare, lo so che ha accettato solo per soldi).

Nel frattempo Demna è volato da Gucci. E se vi sembra una barzelletta, è solo perché lo è. Dopo aver reso Balenciaga il brand più controverso (e redditizio) del decennio, Demna resta alla corte di Kering, ma in una casa — Gucci — che non sa più se essere sexy, popolare, intellettuale o tutto questo insieme. Il rischio? Che diventi una nuova Balenciaga, ma con il logo più leggibile.

Intanto, il brand che non fa mai notizia ma che detta ancora legge, Chanel, ha scelto Matthieu Blazy. Una decisione precisa: dopo la morte creativa (e commerciale) dell’era Viard, serve un volto pulito, serio, autorevole. Blazy ha il gusto e la disciplina per evitare scivoloni, ma anche l’aria di uno a cui la parola cambiamento mette più paura che voglia. Chanel non rischia, non l’ha mai fatto, ma nemmeno sogna, fa sognare noi una fottutissima collezione maschile che mai e poi mai arriverà. Ma in di questi tempi dove tutto è il contrario di tutto, aver preso Blazy è già una strategia.

Glenn Martens, invece, sfida la logica e i turni di lavoro: sarà a capo di Margiela pur restando da Diesel. Margiela, ovvero il tempio del silenzio, della sottrazione, del pensiero critico, del non logo, ora nelle mani di un designer noto per denim industriali, show spettacolari e dichiarazioni forti. Sarà interessante vedere come gestirà la schizofrenia. L’importante è non aspettarsi il fantasma di Galliano che negli uffici di Place des États-Unis ci andava solo quando se lo ricordava e tanto meno quello di Martin. Non c’è più. Anche se tutti ne sentiamo la mancanza. 

Ma il vero colpo di scema arriva da Versace, dove Prada ha calato l’asso. Mossa fredda, da vero killer, spietata: Donatella fuori, Dario Vitale dentro. E se non sapete chi sia, è perché non dovete. Prada non sceglie per hype, ma per strategia. In un mondo in cui tutto urla, loro sussurrano. E poi colpiscono. Versace ora è parte del “sistema Prada” — leggasi: meno trash, più margini. Addio paillettes? Non subito. Ma a Donatella, se non altro, non toglieranno mai il mito.

Chi invece ha tolto il disturbo senza troppi drammi è Dries Van Noten. Un addio elegante, senza caos né gossip. L’uscita di scena di chi sa che la moda non è più il posto per chi vuole creare con lentezza, bellezza, e una certa forma di poesia. Rimarrà il marchio, certo, ma l’anima è uscita con lui. E forse è meglio così.

E infine, Maria Grazia Chiuri lascia Dior. Dopo anni di t-shirt femministe, frasi ricamate e passerelle che sembravano simposi ONU, la designer abbandona il campo lasciando Dior senza una voce fintapolitica. Il bilancio? Diviso. Ha portato il femminismo sulla passerella, ma spesso l’ha ridotto a merchandising. Adesso che se n’è andata, la domanda è: chi si prenderà la responsabilità di raccontare il femminile? Ma JW Anderson ovviamente, che dopo l’operazione difficilissima di rianimare lo spagnolo LOEWE (che con il duo di Proenza Schouler è pronto a tornare in cantina) è stato chiamato da Dior prima uomo e ora anche donna. Ma non sono sicuro resti li per molto tempo.. sarà un raf simons bis?

Insomma in un mondo sempre più dominato da uomini, quasi tutti quarantenni e quindi per la moda appena maggiorenni, a parte Miuccia con a seguito il suo badante e Louise Trotter da Bottega Veneta, siamo tutti in attesa di tornare a vedere collezioni disegnate da chi sa farlo, da chi ha studiato e non dalla Bellettini ne tanto meno da Cantino o qualche altro direttore marketing, perché se è vero che il sistema moda è ormai un palcoscenico instabile dove le direzioni creative cambiano più in fretta delle tendenze, e mentre gli stilisti si passano il testimone come in una staffetta ad alto rischio reputazionale, i brand e i loro CEO inseguono l’illusione che un solo nome possa salvarli. Ma la verità oggi sembra un’altra: la moda ha smesso di cercare idee, ora cerca solo colpevoli.

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