METAMORFOSI: Ethan e il suono del cambiamento

Nel suo nuovo album METAMORFOSI, Ethan intreccia sonorità italo-brasiliane, identità queer e fragilità emotive. Un racconto sincero di trasformazione, libertà e corpo come espressione viva del cambiamento.

In un presente che cambia velocemente, Ethan sceglie di non resistere, ma di fluire. Dopo un periodo di trasformazioni personali e artistiche, ci parla dal Brasile – tappa fisica ed emotiva di un viaggio che ha il suono del baile funk, il cuore della nostalgia e la pelle della libertà. Il suo nuovo album, METAMORFOSI, è un manifesto di movimento costante: tra lingue, generi, identità e paure.

Non è la prima volta che Ethan passa da TOH! Magazine: lo avevamo incontrato in un altro momento della sua evoluzione, e oggi lo ritroviamo più consapevole, più audace, ma sempre fedele a quella ricerca di verità che lo rende unico. In questa intervista ci accompagna dentro un universo dove il dolore si può ballare, la fragilità diventa forza, e la queerness si afferma con orgoglio anche nei territori musicali più tradizionalmente chiusi.

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Photos by Azazel

Ciao ETHAN, come stai?

Sto piuttosto bene, è un momento pieno di cambiamenti e sto cercando di viverli tutti senza farmi troppe domande, anche se per me non è molto facile. Vedremo dove mi porterà. In questo momento, mi ha portato in Brasile. • “DESGRAÇADO” è una traccia che riesce a far ballare il dolore.

Come sei arrivato a trovare questa formula emotiva e sonora così potente e contraddittoria?

È un po’ la chiave della mia musica in questo momento: riuscire a parlare di nostalgia anche in modo leggero, senza necessariamente piangerci sopra. Con “DESGRAÇADO” volevo proprio questo contrasto, un mondo sonoro che ti fa muovere, portando con se un po’ di malinconia. Credo che nella vita spesso le cose si mescolino. ⁠

Il tuo album si intitola “METAMORFOSI”: un manifesto di cambiamento continuo. In che modo senti di essere cambiato tu, rispetto ai tuoi primi lavori?

E qual è oggi la tua “forma” più autentica? Non credo esista una “forma” più autentica delle altre. Siamo fatti di frammenti, di fasi, di influenze diverse che si sovrappongono e cambiano nel tempo.

“METAMORFOSI” nasce da una consapevolezza: il cambiamento non è un passaggio da una maschera a un’altra, ma un modo per restare connessi a sé stessi in modo sincero, nel presente.

Oggi mi sento più vicino a certe sonorità, un po’ più coraggioso nello sperimentare con generi musicali diversi e con certi modi di scrivere e di raccontare, ma non perché siano più veri. In questo momento mi fanno sentire più vivo e connesso con me stesso. Domani chissà, magari sarà diverso.

Nel disco si percepisce una grande libertà linguistica e musicale: usi l’italiano e il portoghese, mescoli baile funk, elettronica e pop. Quanto contano per te le tue radici italo-brasiliane nel definire il tuo suono?

Moltissimo. Le mie radici italo-brasiliane sono una parte fondamentale di chi sono e di come faccio musica. Per me è importante rimanere legato a quella mescolanza culturale, perché è da lì che nasce la mia identità artistica, l’uso di più lingue e il mix di generi come il baile funk, l’elettronica e il pop.

La musica brasiliana, ad esempio, ha una forza ritmica e un’energia che porto sempre con me, mentre l’Italia mi ha dato un certo gusto per la melodia e la scrittura. Mettere insieme questi mondi non è solo un esercizio di stile, è un modo per raccontarmi con sincerità.

In “LOVE É FRACO” porti la tua queerness dentro un contesto tradizionalmente etero-maschile come quello del baile funk. Che responsabilità senti, come artista queer, nel cambiare certi immaginari musicali e culturali?

È estremamente importante, soprattutto oggi. Portare la mia queerness in contesti musicali che storicamente sono stati dominati da maschili etero, come il baile funk, è una scelta politica ma anche personale. È un modo per allargare lo spazio dell’espressione, per dire che anche lì possiamo esistere, ballare, desiderare, essere protagonisti.

Detto questo, devo dire che mi hanno accolto molto bene. C’è curiosità, apertura e sempre più voglia di rompere certi schemi. Credo che il cambiamento passi anche da questi piccoli spostamenti: portare sé stessi con onestà, senza forzare nulla, ma senza nascondersi.

Collaborare con artiste come Mia Badgyal o NAVA non è solo una scelta musicale, ma anche politica. Quanto è importante per Ethan costruire reti queer e inclusive anche attraverso la musica?

Fare musica, per me, è anche un atto politico, anche quando non si parla direttamente di società, governo o attualità. Ogni scelta, da con chi collabori a come ti presenti, al tipo di immaginario che costruisci, ecc., sono già una presa di posizione.

Lavorare con artiste come Mia Badgyal o NAVA, che sono due artiste donne che stimo profondamente, non è solo una scelta artistica, è anche un modo per creare e rafforzare reti queer, inclusive e libere.

Credo molto nella forza collettiva della musica: nell’unire voci che, insieme, possono amplificarsi, sostenersi, aprire spazi nuovi. In un sistema che spesso premia la standardizzazione, costruire alternative diventa un gesto di resistenza. E farlo con autenticità e desiderio condiviso rende tutto ancora più potente.

Nei visual e negli artwork il corpo diventa tela, simbolo, dichiarazione. Come nasce la tua estetica e in che modo si intreccia con la tua visione identitaria e artistica?

Osservo molto come cambio nel tempo, sia dentro che fuori.

Il mio corpo, per me, è come una tela bianca: uno spazio aperto dove posso riscrivere, ridefinire, o semplicemente lasciar emergere quello che sono in un dato momento.

È da questa consapevolezza che nasce la mia estetica. Non come qualcosa di fisso o costruito, ma come un’estensione della mia identità in continua evoluzione. Ogni visual e artwork sono un modo per raccontare un frammento di me, per mettere in dialogo ciò che sento con ciò che mostro.

Mi piace che il mio corpo diventi simbolo, dichiarazione, ma anche gioco e trasformazione. Perché la verità, alla fine, è che non siamo mai una cosa sola e l’arte mi permette di abbracciare tutte le mie sfumature.

Ethan “METAMORFOSI” (Carosello Records)

Nel tuo track by track parli spesso di contraddizioni emotive, legami instabili, vulnerabilità. La tua musica sembra voler dare dignità e forma a tutto ciò che è fragile. Quanto è importante oggi, secondo te, raccontare la fragilità senza filtri?

È la chiave della mia emotività e anche del mio modo di fare musica. Raccontare la fragilità senza filtri, senza vergogna, è per me un gesto necessario. Viviamo in un tempo in cui spesso ci sentiamo costretti a mostrarci sempre forti, risolti, inattaccabili… Ma la verità è che la vulnerabilità fa parte della nostra umanità. Anzi, la gentilezza soprattutto verso sé stessi oggi è molto più radicale, e anche più “cool”, di chi si mostra di marmo.

Dare dignità a ciò che è fragile, alle contraddizioni, ai legami incerti, è un modo per fare spazio a un’emotività reale, che esiste ma spesso viene nascosta. Io la trovo una forma di forza, e anche di sensualità: essere in contatto con ciò che senti, anche quando è instabile, è estremamente sexy.

È lì che nasce qualcosa di autentico, qualcosa che vibra. Non esiste un altro modo possibile per stare al mondo, a mio avviso. E se posso portarlo nella mia musica, allora sento di aver fatto qualcosa di vero.

Ethan, se potessi scegliere un messaggio che METAMORFOSI dovrebbe lasciare in chi ascolta, quale sarebbe? Cosa vuoi che rimanga, una volta che l’ultimo beat di “tutto bene (outro)” svanisce?

Se devo scegliere un messaggio, forse è proprio questo: vorrei che METAMORFOSI non lasciasse nessuno indifferente. Non mi interessa piacere a tutti, non cerco l’approvazione. Mi va bene anche se qualcuno pensa “mi fa schifo”, purché qualcosa si muova, anche solo per un attimo, anche solo in un angolo dimenticato della giornata. L’importante è che arrivi qualcosa che sia fastidio, desiderio, malinconia, empatia o solo una sensazione strana che non sai spiegare. L’indifferenza è l’unica cosa che temo davvero.

L’ultimo album di cui ti sei innamorato?

“Joanita” di Joan Thiele e “Bodhiria” di Judeline. Due dischi che, ognuno a modo suo, hanno un suono e una visione fortissima. Mi hanno fatto venire voglia di spingermi ancora più in là.