Made in Italy? Non credo proprio!

Oggi sempre di più si parla di moda anche se molti in realtà parlano solo di vestiti, ma quello che non si dice è che c’e una nevrosi che ha invaso il sistema moda: chiamare “Made in Italy” un prodotto cucito con stipendi da fame, turni da lager e manodopera invisibile.

È un potere magico: scrivi quelle due parole sull’etichetta e giustifichi qualsiasi prezzo, anche 3.000 €, anche se dietro c’è un laboratorio dove dormi in piedi e lavori 90 ore a settimana. Il caso Dior nel giugno 2024 e quello esploso giusto pochi giorni fa con Loro Piana, brand simbolo del cashmere italiano, e del quiet luxury hanno spaccato l’immagine patinata, ma anche un po’ sbiadita, di un intero comparto.

Per chi non lo sapesse Il “quiet luxury”, o lusso discreto, è una tendenza che valorizza la qualità, la sobrietà e la raffinatezza senza ostentazione,contrapponendosi al lusso sfarzoso. Si concentra sull’artigianalità, i materiali pregiati e la durata nel tempo, piuttosto che su loghi vistosi o design alla moda. In pratica, si tratta di un approccio all’eleganza che privilegia la sostanza alla forma, la discrezione all’esibizione. 

Ma la verità è un’altra: Dior-Manufactures Italia è stata commissariata a giugno 2024 dalla sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano. Alla base della scelta: operai cinesi impiegati in opifici italiani (Scandicci, Monza, Fosso) con condizioni disumane, pagati poche decine di euro, turni massacranti, assenza di sicurezza, residenze abusive dentro i capannoni.

Ecco le cifre registrate: borse vendute a 2.600 €, prodotte per 53 €. Un profitto che macchia e definisce il “lusso italiano”. Il trucco? L’ultima cucitura, magari fatta in Italia, trasforma l’ignoranza operativa in Made in Italy legale.

Poi Loro Piana, il 14 luglio 2025: il Tribunale di Milano ordina un anno di amministrazione giudiziaria sul brand. Il motivo? Aver “colposamente agevolato” lo sfruttamento. E qui fatalmente cambia poco l’elegante narrativa dei filati pregiati italiano.

Le indagini rivelano filiere di cartiera – Evergreen Fashion Group e Sor‑Man –, subappaltate a laboratori cinesi (Clover Moda a Baranzate, Dai Meiying a Senago) dove operai clandestini erano costretti a dormire dentro gli stabilimenti, lavorare fino a 90 ore settimanali per 4 € all’ora, senza ferie, tutele, corsi o sindacati.

Uno di loro ha denunciato di essere stato pestato con tubi perché aveva chiesto pagamenti arretrati. Forse dovrei fermarmi qui perché il limite della dignità è già superato. Ma c’è di più: Il costo di produzione pattuito era 118 € a giacca, pagato al fornitore italiano; loro lo compravano per 80 € dai cinesi. Poi lo vendevano tra 1.000 e 3.000 €. Un’impronta di bugia lucida, pagabile con carta di credito ma anche cash (gli arricchiti amano avere le mazzette in tasca tenute da elastici gialli)

La giurisprudenza parla chiaro: Loro Piana non ha crimini diretti, ma ha permesso che il sistema si radicasse, dimostrando di non avere alcun modello organizzativo credibile. Uno streaming aziendale fatto di audit formali, controlli allo specchio, rescissioni tardive.

Ora, più o meno, è chiaro a tutti che è tutto il sistema moda che mente, LVMH incluso. Armani, Valentino e Dior: tutti sotto amministrazione tra il 2023 e il 2025. Le denominazioni, il made in, il saper fare… sono diventati sinonimi di evasione, silenzi di ufficio stampa, adv che tengono le redazioni in ostaggio.

I giornali di settore, si anche quelli indipendenti, continuano a raccontare sfilate, sostenibilità, heritage. Non dicono niente del sangue che c’è sotto. Perché “non conviene”, perché dietro ogni review c’è un viaggio stampa, un regalo, un contratto pubblicitario. Il sistema regge perché nessuno rompe davvero le palle, se no si corre il rischio di perdere tutto.

Eppure, esistono ancora brand che puntano davvero sul Made in Italy, marchi come Brunello Cucinelli, che ha fatto della dignità del lavoro una bandiera concreta, non solo estetica. 

Cucinelli, con la sua fabbrica e scuola a Solomeo, offre salari veri e storie di dignità. Slowear, Herno, Vitelli, Il Bisonte, Alberta Ferretti, alcune linee di Zegna: realtà che producono internamente, con lavoratori regolari, tutele e trasparenza. Ma sono eccezioni anche se il loro silenzio facilita il mitomane signor marketing del lusso mainstream.

In questa narrazione, il Made in Italy è diventato un “brand estetico, non produttivo”, una barzelletta che non fa ridere, un paravento da boutique che nasconde scheletri in magazzini fatiscenti. Una truffa consensuale: il cliente paga l’immagine, non il lavoro. E l’etichetta? Serve a coprire un sistema di caporalato legalizzato, ottimizzazione dei costi, profitto sopra ogni cosa.

È tempo di fare ciò che i giornalisti dovrebbero fare: raccontare quel che sanno, senza censure, senza paura. È tempo che i consumatori chiedano trasparenza sul chi, come, dove. Solo così il Made in Italy potrà (forse) tornare a significare qualcosa.

Perché oggi, se vedi una giacca da 3.000 € con su scritto Made in Italy, chiediti: Italia di chi? Forse quella della Santanchè che alimenta più di tutti il fuoco del contraffatto ma fatto comunque bene, in Italia, che per citare una canzone mai presa troppo sul serio, è il paese delle mezze verità.