Milano Fashion Week SS26: debutti, déjà-vu e conti in sospeso

A Milano la SS26 ha fatto da banco di prova per i nuovi direttori creativi. Non era la settimana della moda, ma una verifica pubblica: chi ha davvero un’idea e chi no?

Tra debutti, sorvegliati speciali e vecchi leoni che difendono il territorio, il messaggio è chiaro: la moda non perdona il compromesso benché meno chi non ha idee. 

I debutti

Versace – Dario Vitale

Il primo designer “esterno” a guidare Versace ha scelto un esordio che non strizza l’occhio al fan da Instagram ma al DNA profondo della maison. Vitale ha parlato apertamente della storia del brand e del suo fondatore, riportando in passerella sensualità, stampe e codici originari, ma filtrati da uno sguardo meno gridato.

Risultato: chi conosce Versace solo per la Medusa luccicante o per il glamour da red carpet è rimasto deluso. Eppure, paradossalmente, questa collezione è stata molto più Versace di quanto sembri. Vitale ha ricordato che Versace non è solo un logo, ma un linguaggio. È un inizio che spiazza, e per questo divide.

Jil Sander – Simone Bellotti

Bellotti non ha cercato scorciatoie: ha scelto il minimalismo puro, quello che non cede al superfluo. Tagli netti, colori sobri, nessun effetto speciale. Un ritorno all’essenza che ha senso in un mondo saturo di rumore. Ma il rischio è grande: in tempi così veloci, il silenzio deve saper urlare.

Bottega Veneta – Louise Trotter

Trotter ha celebrato i 50 anni dell’intrecciato senza trasformarlo in reliquia, ma come filo conduttore della collezione. Ha tenuto insieme artigianato e rigore, femminile e maschile, con una visione misurata e coerente. È un debutto solido, quasi didattico.

Il problema è che Bottega non vive di “compiti ben fatti”: a lungo andare servirà più tensione, più rischio, altrimenti resta solo un bell’esercizio di stile.

Gucci – Demna

Demna ha cancellato la passerella per sostituirla con un film, “La Famiglia”. Una scelta che ribalta l’idea stessa di show. I codici Gucci ci sono, ma raccontati attraverso un’estetica domestica, a tratti dissacrante. Il punto è che, togliendo lo spettacolo, Demna ha creato ancora più spettacolo: il gesto stesso è diventato la notizia.

Demna è genio o autoreferenzialità? Dipende da quanto sei disposto a seguirlo in questo cortocircuito.

Gli altri

Antonio Marras

Patchwork, damaschi, fiori, check: Marras non si modera mai. È un caleidoscopio visivo che affascina e sfinisce insieme. È pittura in movimento: chi entra nel suo mondo resta catturato, chi cerca leggerezza si perde.

Etro

Massimalismo dichiarato: gonne con spacco, jeans stampati, stratificazioni di colore e pattern. Etro non chiede scusa, anzi rivendica la sua natura iper-decorativa. Una coerenza che può essere virtù, ma anche gabbia soprattutto per il designer Marco De Vincenzo (uno tra i migliori in circolazione) che risulta imprigionato dentro un loop che non gli permette di essere se stesso al 100%

MM6 Maison Margiela

Il menswear più riuscito del womenswear, layering, trasparenze e tagli incompiuti. La collezione è fedele al linguaggio della casa, ma rischia di sembrare più disordinata che sovversiva. L’imperfezione può essere forza, ma solo se guidata. Bellissima la location e il casting un po meno la colonna sonora

Missoni

Ha portato in passerella la sua leggerezza, ma con un twist pragmatico: capi pensati per muoversi dal lavoro al tempo libero. È Missoni, sì, ma con un occhio alla funzionalità. La sfida? Restare poetici senza cadere nella banalità del “pratico a tutti i costi”. 

N°21

Dell’Acqua ha lavorato di sottrazione: stratificazioni trasparenti, toni leggeri, silhouette portabili ma non banali. È moda concreta, ma non piatta. Un equilibrio raro, che in tempi di estremi risulta quasi rivoluzionario.

Prada

E poi c’è Prada, che resta il baricentro di Milano. Nessun debutto, nessuna crisi d’identità: solo la solita capacità di dettare il tono della stagione. La collezione ha dimostrato ancora una volta che Prada non segue, guida. E soprattutto ricorda a chi arriva che la differenza tra “bravo” e “storico” è una questione di linguaggio. Prada continua a parlare la lingua che gli altri, appena arrivati, devono ancora imparare. 

La lezione di Milano

Milano non è stata né nostalgia né rivoluzione. È stata un test di autenticità. Vitale ha ricordato che Versace non è solo un logo, Bellotti ha scelto il silenzio del minimalismo, Trotter ha mostrato rispetto senza sbavature, Demna ha trasformato un’assenza in evento. Gli altri hanno resistito, ognuno a modo suo.

Quello che resta chiaro è questo: oggi non basta esserci. Se non imponi una visione — che sia rumorosa o sottilissima — diventi sfondo. E Milano, più che mai, non ha spazio per chi resta nel mezzo.