Brett Charles Seiler: fragile come un segreto

Brett Charles Seiler non dipinge corpi, ma desideri che si trattengono sulla superficie della pelle. Nei suoi quadri, l’intimità è un linguaggio indecifrabile, un gesto che oscilla tra la dolcezza e la resa, tra l’abbraccio e la lotta.

Brett Seiler abita quella zona ambigua dove l’amore diventa sguardo e lo sguardo diventa confessione. Ogni figura, ogni spazio, sembra respirare un silenzio carico di tensione, come se la pittura stessa fosse un modo di ricordare ciò che si è amato — o che si è perso.

Nel caos gentile del suo studio, Brett Charles Seiler trasforma il disordine in rivelazione. I corpi che ritrae non sono mai soltanto corpi: sono testimoni di una presenza, di un momento fugace, di un’intimità condivisa e subito negata. C’è una sensualità quieta nei suoi interni, una malinconia che sussurra più di quanto mostri.

Brett Seiler non racconta: suggerisce, accenna, lascia che la vulnerabilità si depositi sulla tela come un segreto che non ha bisogno di parole.

Guardare un suo dipinto è come spiare dalla serratura un pensiero privato — non per violarlo, ma per sentirne il respiro. In quell’equilibrio fragile tra luce e silenzio, tra corpo e memoria, Brett Charles Seiler costruisce un linguaggio della tenerezza che sa essere anche resistenza.

Nelle tue opere, l’intimità è un atto di resistenza o di resa?

Credo un po’ entrambe le cose. Per esempio, c’è un dipinto in cui le figure si abbracciano, ma allo stesso tempo sembra quasi che stiano lottando. C’è quindi una sorta di dualità all’interno dei ritratti. Immagino dipenda anche dal singolo soggetto, dal suo stato d’animo — se desidera essere visto, oppure se preferisce qualcosa di più delicato e sensibile.

Nel tuo processo creativo c’è spazio per il silenzio, o è tutto rumore?

Creativamente parlando, direi che il mio processo è piuttosto tranquillo. C’è sempre della musica in sottofondo, ma anche momenti per un pisolino pomeridiano o per leggere un libro. Il vero rumore nasce quando rifletto intensamente su un dipinto, quando rimugino su una decisione presa nel lavoro. È in quei momenti che tutto diventa un po’ caotico: cerco significato in piccoli segni, in tracce minime.

Tutto è sparso sul pavimento, e piano piano resta lì, prende forma, finché non trova il suo posto nel dipinto.

Anche quello, in fondo, è un tipo di rumore. Quindi, direi: non troppa chiarezza, almeno finché l’opera non si sente completa.

Il tuo studio è un santuario o un campo di battaglia emotivo?

Il mio studio è letteralmente una bomba di immagini di riferimento, vernici, cartoni, sedie… tutto è un po’ caotico.

Sembra un rumore costante, necessario a creare qualcosa, ma in realtà tutto si placa quando il lavoro è finito.

È allora che arriva il momento di riflettere e vedere cosa è emerso da questo “campo di battaglia emotivo”. Ma un santuario, no, il mio studio non lo è affatto.

La tua arte è spesso corporea: il corpo che dipingi è un oggetto, un amante o un alter ego?

Dipingo i miei amici, i miei amanti, le mie muse e le persone che incontro lungo il cammino. Credo che non si tratti solo del corpo in sé, ma del modo in cui quel corpo è collocato, di come interagisce, se guarda un altro corpo — o se guarda chi osserva.

Usi spesso le stesse palette di colori: sono conforto, ossessione o un linguaggio segreto tra te e la tela?

Ho iniziato con una gamma monocromatica perché dipingevo vecchie fotografie, che erano in bianco e nero — o a volte in seppia. Penso che questa onda di colore trasmetta una sensazione di nostalgia, come un ricordo che svanisce. Quindi, direi che i colori, più che una scelta, sono un sentimento.

Quando dipingi una figura solitaria nello spazio, cosa vuoi dire sulla sua solitudine e sulla sua sensualità?

Dipingerne una sola, credo, significa semplicemente catturare un momento fugace. È come un segno che dice “sono stato qui”, qualcosa di quasi esistenziale. Essere intrappolati, da soli, nei quattro angoli di un dipinto. Mi piace pensare che le persone possano riconoscersi in questo: nel vedere qualcuno da solo, talvolta nudo, o solo nell’atto di cambiarsi. È un istante — non del tutto privato, ma neppure esplicito. Solo un frammento di quotidianità, un momento qualunque del giorno.

I tuoi interni raccontano segreti: sono rifugi, trappole o inviti?

Dipende molto dall’ambiente. Un tempo dipingevo persone negli appartamenti, esplorando l’idea di costruire o inventarsi una casa. Ora invece dipingo persone nel mio studio, immersi nel suo caos — pieno di piccoli indizi, riferimenti a lavori precedenti, frasi e annotazioni sparse. Mi piace pensarlo come una sorta di tana del bianconiglio. Che poi gli altri lo vedano come un rifugio o come una trappola, beh, questo dipende dallo sguardo di chi osserva.

Le tue scene spesso sembrano intime e private: c’è mai un momento in cui ti senti un intruso o un collaboratore?

È un invito a entrare nel mio studio, nella mia mente, nella mia vita privata — in effetti, sembrano quasi pagine di un diario. Essendo un lavoro così autobiografico, credo che la possibilità di intrusione sia inevitabile, ma non per colpa di nessuno: semplicemente, si tratta di uno sguardo da voyeur. Penso che il modo per collaborare, invece, sia sentire la stessa cosa, o riconoscersi nel dipinto.

Cosa ti manca di più nella vita?

Mio papà.