Dalla Roma dei tappeti alle notti brasiliane, Laila Al Habash torna con “Tempo” (Undamento), un disco maturo e luminoso. Un viaggio nel rapporto con sé stessi, tra accettazione, ritmo e libertà di lasciar andare.
Con Tempo, Laila Al Habash torna a raccontarsi con la lucidità e la dolcezza che da sempre la contraddistinguono. Il nuovo album non è solo una raccolta di canzoni, ma un percorso emotivo, un diario che riflette su cosa significhi vivere davvero l’adesso, mentre tutto intorno corre.
Il titolo, nato da un sogno, custodisce il cuore del progetto: il tempo non è solo ciò che scandisce le ore, ma ciò che si sente, si perde, si ritrova. Dentro queste tracce pop, Laila Al Habash si apre a nuove direzioni — tra pulsazioni hip hop, accenni indie e richiami a sonorità brasiliane e mediorientali — mentre nei testi affronta la crescita, la vulnerabilità, la paura di non fare abbastanza, ma anche la necessità di fermarsi, respirare e accettare che non sempre servono risposte.
Persino la copertina, ambientata in una galleria di tappeti arabi a Roma, diventa simbolo di equilibrio: un incontro tra radici e presente, tra ciò che resta e ciò che cambia. Tempo è così un invito gentile a rallentare, ad ascoltarsi, e a imparare a stare — semplicemente — dentro il proprio tempo.

Ciao Laila come staI?
Bene grazie!
Parliamo della cover di Tempo, tu in un negozio di tappeti, è molto evocativa. Come nasce l’idea?
È stata un’idea che ho sentito subito molto coerente con me, anche con le cose che avevo fatto prima. Lo stile è quello, ma la cosa strana è che è stata una delle prime idee nate per il disco: prima ancora delle canzoni avevo già in mente la copertina, cosa che non mi era mai successa.
Sono nata in una casa piena di tappeti arabi e nel 2021 ho conosciuto Mehran Farmand, un ragazzo romano di origini arabe proprietario di una galleria di tappeti. È stato lui a propormi di scattare lì. Ci abbiamo messo anni, ma alla fine l’abbiamo fatta esattamente come la immaginavamo.
È vero che il titolo del disco, “Tempo”, ti è arrivato in sogno?
Sì. Era il 2021, stavo finendo Mystic Motel, e ho sognato che il mio prossimo disco si sarebbe chiamato Tempo. Nel sogno dicevo: “Si chiama Tempo perché è una cosa che tutti hanno ma nessuno sa spendere bene”.
Mi sono svegliata, l’ho scritto sul telefono e poi l’ho lasciato lì. Io ho l’abitudine di appuntarmi i sogni che faccio. Ma all’inizio non gli avevo dato molta importanza poi quando ho preso in mano i demo mi sono ritrovata davanti la scritta Tempo e man mano che lavoravo al disco ho capito che in effetti parlava davvero di questo: del rapporto con il tempo, con il passato e il futuro, e della difficoltà di restare nel presente.
Scrivere musica mi ha sempre portata a osservare le esperienze, specialmente quelle dolorose, come se dovessi spremerle a fondo, ma poi ho capito che dovevo smetterla sia di rimuginare su cose accadute, che di cercare di prevedere quelle che sarebbero ancora successe in modo quasi schizofrenico. In questo esercizio di osservazione di come sto nel tempo sono uscite delle canzoni che non cercano risposte, ma che si pongono delle domande.
Come dico spesso di un viaggio m’interessa come si fa non cosa ho imparato, almeno non credo che alle persone interessi cosa ho imparato, io vi racconto cosa è successo poi ognuno tragga le proprie conclusioni. Ci ho messo un sacco a fare questo disco, forse me la sono tirata un po’ dietro con questo titolo! Ricordo che volevo farlo uscire a tutti i costi ma poi ho rallentato e ho aspettato, ho cercato di smettere di lottare e di lasciare che tutto avesse i suoi tempi naturali.
Hai lavorato molto in solitaria: è stata una scelta o una coincidenza?
Un po’ entrambe. Non sono una persona da grandi gruppi, mi piace lavorare in intimità, con una o due persone. Nella vita o in studio è lo stesso: preferisco creare una piccola bolla. C’è stato tanto lavoro in solitudine ma allo stesso tempo ci hanno lavorato tante persone, ci sono quattro produttori che ho scelto in base a quello che serviva alle mie canzoni: Niccolò Contessa, Pietro Paroletti (Golden Years) , Ermanno Bizzoni, Rocco Giovannoni. Per esempio, Tuareg poteva produrla solo Niccolò, perché sa tradurre perfettamente il linguaggio tra musica e parole come sapevo che il basso di Sahbi doveva suonarlo Pietro. Sono quattro persone con cui ho fatto un percorso negli anni e con cui ho una certa affinità.

Rispetto al tuo esordio, questo album sembra più personale e riflessivo.
Sì, molto. Quando ho scritto Mystic Motel avevo vent’anni, non avevo mai fatto un disco né un tour né una promo, non sapevo niente. Mi affidavo molto ai miei collaboratori, come Stabber o Contessa e assecondavo le loro scelte. Ora invece mi sentivo pronta a esplorare da sola, anche argomenti e sonorità nuove, mantenendo però coerenza con quello che ho fatto finora.
Anche il suono sembra più suonato e pensato per il live.
È vero. Ogni volta che ero indecisa su una strofa, un ritornello o un arrangiamento, pensavo: “Quale parte mi divertirebbe di più fare sul palco?”. Questo pensiero mi ha guidata tantissimo. Ci sono molti più strumenti reali rispetto al primo disco, meno produzione digitale e più energia viva.
Parliamo di “Sahbi”, uno dei brani più forti per me. Da dove nasce?
Da una storia vera. Ero con le amiche a ballare, mi stavo divertendo tantissimo, erano le 5 di mattina, il peak della serata, quando un tipo ha deciso di rovinarmela. Mi ha fatto proprio arrabbiare, tanto che mi han dovuto portare via, serata finita! Tornata a casa ero così arrabbiata ed ho pensato: “Ci devo scrivere un pezzo”, ma senza dargli la soddisfazione di scrivere davvero del mio fastidio, ma prendendolo in giro.
Che poi è una cosa che è successa a tutti, ragazzi e ragazze, senza distinzione. Nel testo parlo di libertà, di quel momento in cui finalmente balli, ti lasci andare e provi una sensazione nuova. Poi arriva qualcuno che cerca di interrompere tutto, e io, per liberarmi dalla situazione, gli dico in arabo: “Non parlo italiano”. Mi divertiva farlo, anche perché so di sembrare straniera ma non araba, e da tempo volevo inserire questa lingua in modo naturale.
Hai già giocato con l’arabo in altri brani, giusto?
Sì, in Long Story Short, anche se in modo minuscolo alla fine del pezzo. Mi piace mescolare le lingue, sono piccoli dettagli che magari non nota nessuno, ma per me rendono il progetto più autentico.
“Timido” è un pezzo molto particolare. Essere timidi per te è una cosa positiva o negativa?
In generale tendo un po’ a non fidarmi di chi è troppo timido: chi è esuberante ti mostra subito chi è e cosa fa — anche quando sbaglia — mentre da una persona silenziosa non sai mai cosa aspettarti. Nella vita mi hanno fatto rimanere più volte male persone timide e introverse piuttosto che quelle chiassose.
La canzone nasce da un’esperienza in Brasile, durante il tour del 2023. Lì, per la prima volta in vita mia, mi dicevano che ero timida! Ma timida io? E invece sì, rispetto a loro ero davvero un po’ ingessata.
In quel contesto ho capito che la percezione di sé cambia molto a seconda di dove ti trovi, e ho deciso di raccontare quella sensazione in una canzone più leggera e ritmata, molto diversa da quello che avevo fatto finora. La trovo una canzone coraggiosa, con un ritmo tropicale che non avevo mai esplorato prima, e anche un po’ di malizia quando dico: “Quanto ti impegni per guardare il muro. Alza quegli occhi se vuoi”, come a dire: guardami, sono qui — non guardarti intorno!

Com’è stata l’esperienza di fare un tour in Brasile?
Pazzesca. Mi ha cambiata. Lì la musica è vita. Mi sono innamorata a tal punto che, al ritorno, ho iniziato a studiare portoghese. Voglio sentire le cose come le sentono loro, vivere la musica come la vivono loro.
Se vai a un concerto in Brasile, ballano davvero tutti, dalla prima all’ultima fila: sono tutti coinvolti, è un’esperienza collettiva fortissima. Ho capito quanto siano curiosi verso l’occidente, ma soprattutto quanto la musica possa unire anche senza capire le parole, e quanto sia potente suonare per persone così attente e presenti.
Ti sei divertita a fare questo disco?
Tantissimo altrimenti non ha senso fare musica, il divertimento è sempre al centro. E sul palco vale lo stesso: se non ti diverti tu, non si diverte il pubblico.
Per questo il tour sarà molto suonato, molto umano. Sto lavorando a un nuovo spettacolo che partirà dai club italiani, con tanti strumenti veri e tanta energia condivisa.
Chi è “Fumantina”?
E chi vuoi che sia… Sono io! È una canzone che mi ha torturata per anni. L’ho scritta con Rocco Giovannoni, doveva quasi essere nel’EP Long Story Short, ma non ero mai soddisfatta perché questo ritornello che mi era uscito fuori mi sembrava troppo facile, e già le strofe avevano un approccio un po’ “cocky”.
Cercavo di renderla, permettimi il termine, più “intelligente”, più complessa, ma non funzionava perché alle mie orecchie era troppo leggera, era l’animale agitato della cucciolata. Alla fine ho capito che doveva rimanere com’era: solare e diretta.
Mi ricordava come scrivevo da ragazzina, senza troppi filtri e questo mi spaventava. Proprio quella semplicità mi dava fastidio, ma poi ho capito che era importante, e dopo un sacco di prove è rimasta com’era ed è diventata il primo singolo del disco perché Fumantina sono io, è stata lo scheletro del disco.
Da anni sventoli sul palco la bandiera palestinese. Come vivi l’impegno sociale nella musica?
Penso che ognuno debba esprimersi come può. Io sento il bisogno di dire chiaramente da che parte sto, ma capisco anche chi non lo fa: esporsi è faticoso, e non sempre il silenzio significa indifferenza.
Non tutto passa dai social: c’è chi non posta nulla ma aiuta concretamente. Credo serva empatia anche in questo — capire che le persone agiscono in modi diversi.
L’ultimo album di cui ti sei innamorata?
“Un lunghissima Ombra” di Andrea Laszlo De Simone, è un album meraviglioso!

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