Interview: Porches

Porches si è barricato in un piccolo appartamento a New York, dopo un estenuante tour aveva bisogno di ritrovare se stesso e un luogo di appartenenza, ma si è sentito talmente tanto al sicuro in questo luogo che non riusciva più a uscirne,  tanto che questa casa è diventata quasi la sua prigione. L’album ha assorbito qualsiasi emozione tanto che il titolo The House è uscito come qualcosa di naturale e insostituibile. Un lavoro che spinge Porches fuori dalla sua confort zone esponendosi come mai ha fatto prima, in un album intimo devoto al synth-pop malinconico.
Porches barricaded himself in a small apartment in New York, after a grueling tour he needed to find himself a place of belonging, but he felt so safe in this place that he could no longer get out of it, so much so that this house it has almost become his prison. The album absorbed any emotion so much that the title ‘The House’ came out as something natural and irreplaceable. A work that pushes Porches out of his comfort zone by exposing himself as he has never done before, in an intimate album devoted to melancholy synth-pop.

Intervista di Marco Cresci

‘The House’  è un album dal gusto nostalgico e solitario che avvolge l’ascoltatore infondendo in esso queste sensazioni. Da dove pensi nasca questo tuo languore?

Per me questo disco va ascoltato in cuffia isolandosi dal mondo per apprezzare la solitudine con cui è stato concepito. Come quando sei sott’acqua e tutto l’ambiente reale si blocca lasciandoci la possibilità di interiorizzare e scavare in noi stessi. Ho iniziato a lavorare al disco dopo un anno di tour, un’esperienza sempre estraniante e difficile, così una volta tornato a casa ho capito che non potevo sprecare tempo e che dovevo mettermi subito al lavoro, per non dimenticare chi sono e cosa faccio. La sensazione di solitudine che traspare dal disco è sia uno strascico del tour che il mondo in cui l’ho scritto, ovvero un isolamento volontario e meditativo. Non avevo mai abitato prima da solo.

Mi hai parlato di acqua, parola che ricorre spesso nei tuoi testi: è un elemento che ti infonde sicurezza?

L’acqua è un elemento con molteplici interazioni, l’acqua sta nell’aria, nel cielo, nell’oceano, nel tuo corpo. Credo che ciò che mi attrae sia questo suo attraversare ogni cosa. Io amo nuotare, soprattutto al lago, perché dove sono cresciuto a Pleasantville ne avevo uno vicino a casa e per me era il simbolo dell’estate. L’acqua è sempre la prima superficie che noto quando osservo un paesaggio. Scriverne per me è qualcosa di necessario.

Ph. Jason Nocito

Quando ho letto che hai scritto il disco in estrema solitudine t’immaginavo in una baita sperduta, di certo non a New York. Come sei riuscito a non farti distrarre dalla città?

Riuscire a trovare uno spazio personale a New York ha molto più valore che scappare in un rifugio tranquillo perché diventa la tua unica via di scampo da tutto. Ho registrato in casa così non dovevo nemmeno andare in studio e ho creato una sorta di routine sistematica e alienante. Ho vissuto in una stanza con un materasso a terra e le apparecchiature per registrare su una scrivania per cinque mesi, non avevo altro. Certo,non fraintendermi, mi piace essere circondato dalle mie cose, ma in questo casoavevo bisogno di pulizia e chiarezza, quindi uno spazio neutro mi ha aiutato a tenere la mente concentrata. Era il mio nido.

Ora che hai lasciato l’appartamento che progetti hai, resterai a New York?

Sono passato dalla campagna in cui sono cresciuto alla frenesia della Big Apple, ma sto seriamente pensando di spostarmi per un po’ in Europa, è un’esperienza che vorrei fare. Mi piacerebbe provare a vivere in una città meno frenetica, sto pensando di trasferirmi a Copenhagen, ma chissà…

È vero che vorresti pubblicare un libro di poesie?

Ho scritto come un pazzo l’anno scorso. Moltissime poesie di cui alcune son diventate in seguito canzoni.  Sto ancora cercando di capire come unirle insieme per poterle presentare a qualcuno, oppure un giorno pubblicherò un PDF di poesie interattivo fruibile gratuitamente a tutti.

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