Mohamed Maalel ha esordito con il suo Baba (Accento Edizioni) il dieci maggio di quest’anno, affermandosi subito come una delle voci più interessanti della narrativa italiana.
La sua è una storia «necessaria», sulla costruzione di sé in una famiglia italo-tunisina, sul rapporto con il padre, l’omosessualità e la geografia personale costruita crescendo.
Con Baba Mohamed Maalel ha conquistato immediatamente il cuore di un numero incredibile di lettori, che come accade per la buona narrativa di autoficiton ha riconosciuto le proprie esperienze nella storia narrata: il rapporto padre-figlio, l’ironia tutta peculiare che ogni famiglia possiede, i passaggi di formazione attraversati dal protagonista Ahmed, che scopre il mondo e costruisce la sua geografia personale pur rimanendo sempre legato ai genitori, Paolina la mamma pugliese e Taoufik, il padre di origini tunisine.
Quella di Mohamed Maalel è una prosa fresca, vivace, il suo è uno sguardo intimo e senza sconti sulla propria vita, sull’insieme di sensazioni, riflessioni, paure ed entusiasmi che la convivenza di due culture diverse può suscitare in un bambino che cresce e diventa adulto.
Il punto di vista usato da Mohamed Maalel è così puntuale da riportarci subito alla memoria sensazioni sepolte e attutite dagli anni: le prime esperienze di coscienza di sé, l’attrazione verso i ragazzi, la queerness, tutti eventi che esplodono di tensione, euforia, gioco e dolore fra le pagine di Baba.
Quando un autore è al suo esordio, com’è successo a te con Baba, c’è sempre una corsa alla definizione. Sono state abbondantemente usate le espressioni «autofiction», «romanzo di formazione», «identità», «seconda generazione» e «multiculturalità». Ti chiedo tre parole che nessuno ha ancora usato per descrivere Baba.
MM: per Baba userei: famiglia, redenzione, memoria.
Baba affronta un argomento difficile: il rapporto padre-figlio. Oggi però voglio chiederti dei tuoi genitori letterari. Chi sono gli autori che ti hanno influenzato, spinto alla scrittura, magari messo anche in soggezione, e che rapporto hai con loro dopo la pubblicazione del tuo primo romanzo?
MM: gli autori che rappresentano il mio percorso “narrante” sono Annie Ernaux, Manuel Vilas e Nicola Lagioia. La prima mi ha insegnato il significato di introspezione, il secondo il valore della memoria familiare, il terzo che è sempre bello tornare a casa. Sto recuperando gli ultimi libri della Ernaux. Con Vilas il rapporto è diverso, perché ho letto In tutto c’è stata bellezza (Guanda, 2019) durante gli ultimi giorni di malattia di mio padre, ho preferito quasi prenderne le distanze. Nicola Lagioia, invece, continua a essere un mio grande riferimento.
La rappresentazione di sé è un’attività necessaria a ogni essere umano ma spesso lasciamo che siano gli altri a descriverci. Qual è il tuo consiglio a chi sente il bisogno di raccontarsi ma non sa da dove cominciare?
MM: spesso mi sono chiesto: da dove iniziare? È giusto partire così? Non esiste una regola, non ci sono definizioni da rispettare. Il cuore non ha solo una funziona fisica: tutto parte da lì, la testa pensa solo a mettere ordine al resto.
La lingua è il primo confronto con una cultura geografica. Tu stesso hai insegnato inglese e hai scelto di vivere a Palermo, la città del sud Italia che più dialoga con la realtà globale. Quanto è importante per te ragionare e lavorare sulla lingua?
MM: da piccolo (come oggi) ho sempre avuto un debole per le lingue, i loro suoni, le loro cadenze. Anche in questo caso, però, tutto arriva spontaneo. La lingua di mio padre, il tunisino, è diventata la mia solo dopo tanti anni. Lo stesso è successo per l’andriese, che tutt’oggi non parlo alla perfezione, ma che sfrutto nei momenti divertenti con i miei amici. Ragiono in più lingue, a volte penso siano necessari i sottotitoli per capirci qualcosa.
In Baba, il cibo è assai importante, non solo per il rapporto tra il protagonista Ahmed e suo padre Taoufik, è atto d’amore, è rifugio, è piacere. Ho amato una delle liste (che nel romanzo sono scritte a mano, ndr), dedicata ai diversi cous cous dell’ideale ristorante di Ahmed. Che cosa sono per te il cibo, la sua cultura e i suoi rituali?
MM: bella domanda, cercherò di essere quanto più essenziale possibile (altrimenti rischierei di diventare logorroico). In Baba il cibo, la sua cultura, i suoi diversi rituali sono una componente essenziale capace di legare ogni memoria e ogni dolore. Il Ramadan, il Natale, il caffè macchiato in ospedale, ogni elemento “commestibile” è parte della mia creatività e della mia scrittura. Quando sono ansioso mangio, e lo stesso faccio quando in testa arriva una nuova idea da sviluppare. Baba è amore, e lo è anche per il cibo.
A Palermo non hai solo vissuto ma hai costruito la tua carriera di giornalista, occupandoti di politica e di cultura. Oggi qual è il tuo sguardo sulla città, sui suoi abitanti e sulla sua scena culturale?
MM: Palermo è una città che mi ha rapito, nel senso buono del termine. Ci sono arrivato otto anni fa, convinto che sarei tornato in Puglia dopo qualche mese. Alla fine le sue culture che si uniscono, la sua cucina e i suoi monumenti mi hanno fatto comprendere l’importanza di avere nuovi spazi all’immaginazione. C’è tanto da fare, soprattutto sull’aspetto legato agli eventi culturali. A Palermo abbiamo il Sicilia Queer filmfest, il Festival delle Letterature Migranti, il Sole e Luna Doc Film Festival, ma non bisogna adattarsi, bisogna pretendere sempre di più per dare valore a ciò che già abbiamo e a quello che verrà.
Oltre a essere uno scrittore e un giornalista, hai anche un passato da analista televisivo (per TV Talk, RAI Tre). Cosa ne pensi dell’attuale televisione italiana?
MM: Tv Talk è stata per anni la mia casa, ne ho un ricordo bellissimo, amici con cui ancora oggi mi sento e che incontro con piacere. La televisione ha un ruolo importante, per quanto riguarda la narrazione del nostro presente: è chiaro che i gusti son gusti e nessuno può permettersi di giudicarci in base a cosa guardiamo in televisione. Questo pensiero l’ho sviluppato nel corso degli anni a Tv Talk, e oggi ne sono ancora più convinto. Ovviamente la razionalità è sempre un metodo da considerare, soprattutto negli ultimi mesi.
In Baba «Rumore» di Raffaella Carrà è la colonna sonora della prima esperienza di liberazione di Ahmed. Si tratta di una scena in interni, mentre fuori si addensano nuvoloni di incomprensione e repressione familiare. Cosa è per te Raffaella? A più di due anni dalla sua morte come consideri il suo impatto sulla cultura italiana?
MM: ascoltavo Raffaella Carrà prima di entrare in classe, durante le scuole medie. Mi aiutava a non pensare, a credere di poter superare qualunque difficoltà. La sua Voglio tutto, soprattutto te (sigla de Il Principe Azzurro, Canale 5, 1989) è ciò che più si avvicina al mio senso di creatività. È stata ed è una donna dal forte impatto culturale, sociale, contro ogni morale. Mi manca, vorrei rivedere il suo sorriso in tv per un’ultima volta.
In Baba la famiglia della madre di Ahmed: nonna, zie e cugine sono un coro femminile di quelli che impari a conoscere, contraddizioni comprese, e ad amare sin da piccolo. Che rapporto hai con la tua famiglia pugliese? Si sono un po’ riconosciuti fra le pagine di Baba?
MM: ho una grande fortuna: posso vantarmi di avere un rapporto eccezionale con tutta la mia famiglia, dalle cugine alle zie sempre pronte a una chiamata da un’ora la domenica mattina. Spesso quando parlo al telefono con uno dei miei familiari, qualche amico mi chiede: ma come fai ad avere tutta questa confidenza con i tuoi parenti? Non lo so neanche io, forse abitudine, o forse perché da trent’anni nulla è cambiato. Tutte e tutti si sono riconosciuti nel libro, anche in situazioni romanzate, il che mi fa sempre sorridere. Sono parte della mia vita, una parte che ricopre Ahmed, così come Mohamed.
Alluvioni, terremoti e instabilità politica hanno intensificato i flussi migratori da Tunisia, Libia e Marocco verso l’Europa. Qual è il compito più importante, di una società civile nei confronti dei migranti in fuga da guerra, violenza e cataclismi naturali?
MM: credo ci sia la necessità di riappropriarsi di un termine importante come «accoglienza» che per colpa di una politica lontana dall’idea di inclusione, oggi viene usato soprattutto per indicare l’incapacità o l’impossibilità ad accogliere. L’Italia è da sempre un paese in cui vivono tante culture e parlare di integrazione si può. In quest’ultimo periodo il paese sembra voler cambiare questa sua connotazione, ma sono fiducioso e spero che si ricordi della sua natura aperta e a accogliente e smetta di affidarsi a certi pensieri politici di esclusione.
Guardiamo avanti, dopo il successo di Baba, cosa sta attirando il tuo interesse? Cosa dobbiamo aspettarci dai tuoi nuovi progetti?
MM: voglio riflettere sul concetto di intercultura, sulla visione dell’altro, sull’idea di comprensione e scoperta di sé. Tutto gira intorno a temi che appartengono alla mia vita quotidiana ma con uno sguardo e una ricerca verso realtà nuove.
Photo Credit: Fabio Florio.
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