Il regista Khoa Lê ha presentato il suo ultimo lavoro “Mother Saigon” al 37° MIX Festival di Milano; un documentario che esplora l’amore, il desiderio e l’orgoglio della comunità queer di Ho Chi Minh City, in passato nota come Saigon.
Presentato in esclusiva a Milano per il 37° MiX Festival Internazionale di Cinema LGBTQ+ e Cultura Queer, lo scorso settembre, il documentario “Mother Saigon” del regista canadese Khoa Lê ci offre uno sguardo intimo e a tratti commovente della comunità lgbtqia+ di Ho Chi Min City.
Il film si apre con un lungo piano sequenza di due donne trans intente a dialogare, una delle quali non udente, tra le due si instaura un discorso silenzioso fatto di sguardi e di complicità, la donna sorda è chiaramente una homeless e campa cercando di vendere bigiotteria all’amica, in una trattativa senza parole ma fatta di sguardi e pose che risulta toccante e commovente.
Questa scena getta le basi del dcumentario, ci lascia capire subito l’intimità che il giovane regista Khoa Lê riesce ad instaurare con le persone che decide di raccontare.
Attraverso un mosaico di ritratti intimi, esplora il desiderio universale di amore, accettazione, connessione e appartenenza dell’umanità attraverso una lente LGBTQ+. “Mother Saigon” è una lettera d’amore, un’ode agrodolce a una madre confortante e allo stesso tempo inquietante, a una città tanto liberatrice quanto opprimente.
Lo abbiamo intervistato:
Ciao Khoa Lê, come stai, come ti trovi a Milano?
Bene, mi piace sempre venire in Italia, spero di conoscere un po’ meglio la vostra scena queer.
Raccontaci qualcosa di te, quando hai deciso di diventare un regista di documentari?
Ho frequentato la scuola di cinema, perché qualcosa dovevo pur farla, poi ho studiato fotografia, mi ritengo una persona molto curiosa, quindi trovo sempre qualcosa che attira la mia attenzione. Ad essere onesto il cinema non era qualcosa che mi attirava particolarmente, non era una passione, ero più interessato a imparare forme d’espressione diverse.
Fare un film per me oggi è qualcosa di molto personale, ogni mio film è anche un percorso di auto apprendimento, di esplorazione, ho cominciato a fare cinema per capire meglio la mia relazione con il mondo, e capisco che questo è molto egoista.
Nel mio documentario precedente “Bà nôi” parlavo del rapporto con mia nonna ed esploravo le mie radici in Vietnam e come potevo relazionarmi ad un tradizione culturale così forte. Ho una sorta di odio e amore verso il Vietnam ma è da dove vengo e dove la mia famiglia vive.
In questo nuovo film “Mother Saigon” il tema è lo stesso ma racconto esploro le possibilità di persone che potrebbero anche essere me, quindi è un film che parla di loro ma anche di me stesso perché posso relazionarmi con ciascuno di loro.
Mi hanno aiutato durante il processo creativo a capire cosa stavo cercando in termini di relazioni, amore, sogni, speranze, e a tutte le difficoltà che hanno incontrato.
Sono cresciuto in Canada, ma vado spesso in Vietnam, così quando vedo il loro modo di vivere posso totalmente relazionarmici, e posso vedere me stesso nelle stesse situazioni in cui si sono trovati loro.
Per me fare film non è una professione, è qualcosa di più forte, quando si accende il desiderio di raccontare qualcosa devo lasciarlo uscire dal mio corpo, e fare film è uno dei modi per farlo, come rilasciare una forte pressione che sto cercando di trattenere.
Come hai scelto le persone e le loro storie?
Innanzitutto son persone con cui son diventato amico, ero in cerca di un argomento da raccontare, così sono andato a Ho Chi Minh City per cercare di capire e di connettermi con la comunità locale e lentamente ci siamo avvicinati.
La verità però è che originariamente stavo lavorando a un film con un copione, sono tornato in Vietnam per cercare il protagonista di questa storia che avevo scritto, mi chiedevo che ragazzo sarà, come vestirà, cosa indosserà, che musica ascolterà, non ne avevo idea.
Così cercando questo personaggio nel mondo reale, ho incontrato un ragazzo per caso in un bar che ha cominciato a raccontarmi la sua storia, ed io ho subito pensato: ecco è lui, inpersonifica tutto lo spirito del mio personaggio!
Ero completamente attratto dalla sua storia e dalla sua persona, ed è scattata la curiosità di conoscere la sua comunità, le persone che gli stanno intorno, così mi sono completamente dimenticato del copione che avevo scritto e mi sono concentrato sulle persone.
Ho conosciuto e mi sono connesso con questa comunità di donne trans che mi hanno introdotto nella loro vita, volevo capire la missione e lo scopo di questa “house” e di questa donna che si prende cura di un gruppo di ragazzini proteggendoli e seguendo il loro percorso di scoperta e accettazione: sono gay, sono trans, sono donna?
Non esiste uno spazio del genere in Vietnam, e lei ha creato questa comunità che supporta come scopo di vita. Ho sentito l’urgenza di parlarne.
Posso relazionarmi con ciascuno di loro, siamo diventati amici, famiglia, comunità, e lì ho cominciato a ragionare sul far diventare questa esperienza il mio nuovo progetto.
“Mother Saigon” apre con un lungo piano sequenza che mostra il dialogo tra due donne trans di cui una è sorda, è una scena toccante e vera perché le due si capiscono perfettamente e trapela l’affetto reciproco il come si prendono cura l’una dell’altra, me ne parli?
Mi fa piacere che hai notato tutto questo!
“Mother Saigon” è un film che parla di prendersi cura l’uno dell’altro, di come supportarci, e in quanto persona queer è un tema importantissimo.
Come possiamo convivere con gli altri e come possiamo aiutarci. Quella scena è molto importante per me, durante le riprese uno degli attori è venuto da me e mi ha detto: “Ho un amico, è una donna trans, vive per strada, vende sigarette la notte e vorrei condividere il mio tempo nel film con lei, se avrò dieci minuti nel film voglio che in questo spazio ci sia anche lei”.
L’ho trovato un atto di condivisione molto toccante e vicino al tema che stavo trattando, così ho acconsentito senza la minima idea di cosa girare, e dove mettere questi personaggi. Così ho fatto quello che mi salva sempre, ed ho seguito il mio istinto.
Non volevo un luogo riconoscibile della città, non identificabile per gli spettatori. Ad Ho Chi Minh c’è un parco molto rumoroso per via degli insetti, ce ne sono così tanti che fai fatica a parlare e ad ascoltare, quindi ho trovato fosse perfetto perché questa donna trans è sorda e quindi ci avrebbe reso tutti alla pari.
Non sapevo sinceramente dove avrei posizionato questa scena commovente e toccante, perché filmandoli per due ore in quella che poteva essere la loro quotidianità è uscito il loro volersi bene il prendersi cura l’una dell’altra. Ci sono sette minuti su di loro nel documentario ma avrei potuto fare un film intero con quelle 2 ore di girato, è stato così potente quel silenzio che ci sto seriamente pensando.
E’ una scena che parla di femminilità, di sorellanza, di prendersi cura, e di quel senso di comunità, ricordo che filmando la scena tutta la troupe ha pianto. Non avevo idea di dove infilarla, ma dopo l’editing ho capito che aveva bisogno di un posto importante, ma allo stesso tempo sono consapevole che si disconnette dal resto del film.
Alla fine l’ho messa all’inizio perché penso getti il tono a tutto il film e la sensazione e le emozioni che volevo trasmettere, non bisogna cercare di capire sempre tutto, ma essere sempre aperti e ascoltare con il cuore. E’ un film sugli esseri umani, non è un topic essere bi, gay o lesbiche, ero interessato nel raccontare la realtà di queste persone che non sono miserabili, ma coraggiose e forti e fiere.
Hai un’icona queer?
Janet Jackson perché ha sempre espresso libertà e la sua musica non è scalfita dal tempo.
So che ti piace ballare, che musica ti piace?
Amo la musica, mi piacciono i movimenti del corpo, la libertà di esprimersi, devo ballare ogni settimana fa parte della mia self care routine, non mi importa dove o con chi, posso essere fatto o sobrio ma devo ballare! Amo la techno, la house vecchia e nuova, uk garage, pop, drum’n bass.
Khoa Lê