Giancarlo Pirelli si muove in un limbo di bellezza e inquietudine, ogni suo gesto artistico è una riflessione sul suo mondo. A Parigi, dove il caos e l’arte si intrecciano in un abbraccio mortale, la sua pittura emerge come un tentativo di dare un senso a un’epoca che sembra aver smarrito la direzione.
La sua arte riflette questo stato d’animo, un flusso continuo tra realtà e fantasia, tra desiderio e angoscia. Giancarlo Pirelli vive come se fosse sempre a un passo dall’orlo, in equilibrio su un filo sottile che separa il caos dalla calma apparente.
Nessun titolo per i suoi quadri e forse è meglio così: le parole non possono afferrare la complessità di ciò che mette sulla tela. Le sue pennellate sono intime, viscerali, come se cercassero di catturare un momento che sta già sfuggendo, un’ombra fugace in una città che, come lui stesso dice, può essere un incubo economico, ma anche un luogo dove tutto si interseca per un istante e poi scompare. Ogni opera di Giancarlo Pirelli è un enigma, un puzzle che ognuno deve risolvere a modo proprio, e Giancarlo non è qui per fornire soluzioni.
Le sue tele ritraggono corpi e volti che si avvicendano, amici e amanti che passano come ombre, appaiono e svaniscono, lasciando dietro di sé solo un eco di quello che una volta erano. Essi sono vulnerabili e lascivi, fissati in un momento di intimità che è al tempo stesso personale e universale. C’è un voyeurismo nell’arte di Giancarlo, un’osservazione che sfida la necessità di essere visti. In ogni ritratto, in ogni corpo nudo e vulnerabile, si intravede un frammento di lui, pur restando sempre nascosto, dietro le quinte, come un narratore che osserva senza voler essere visto.
Giancarlo parla della sua esperienza personale, del mondo in cui vive — un mondo, dice, “davvero di merda” — ma non si ferma a lamentarsi. La sua è una lotta silenziosa, un atto di resistenza attraverso il colore, le forme e le emozioni che non si possono ignorare.
Le influenze di Giancarlo sono un mosaico: dai « primitivi italiani » alle esplorazioni gotiche, il contemporaneo, la crudezza della scena artistica LGBTQIA+ e, il tutto mescolato con un tocco di surrealismo e una dose di ironia.
È un artista che sa che l’estetica e il concetto non sono opposizioni, ma parti di uno stesso discorso, un dialogo infinito tra il visibile e l’invisibile.
Il rosa, con la sua carica simbolica, è un colore che ritorna spesso, carico di significato, legato alla lotta e al trauma, ma anche alla resistenza silenziosa, quella che non si esprime con grandi gesti, ma con piccoli segni, con il pennello che scorre sulla tela, come se stesse tracciando una cicatrice ancora aperta, che non si rimargina mai, ma che racconta storie di sopravvivenza.
In un contesto sociale e politico che pesa sulle spalle di chiunque osi essere diverso, Giancarlo riflette su come tutto questo influisca sulla sua pratica. La sua risposta è sfuggente, come lui stesso: “Non saprei come risponderti,” dice, ma è in questo silenzio che risuona una verità.
La pittura, per Giancarlo, non è mai una forma di salvezza. Forse è per questo che la sceglie. È un modo per guardare dritto nel vuoto, per accettare l’assurdità di un mondo che spesso non offre risposte, e le domande, spesso, non hanno senso.
Alla fine, Giancarlo Pirelli non cerca di salvare niente e nessuno. La sua arte è una testimonianza di un fallimento condiviso, un’illustrazione della fragilità umana in un mondo che continua a girare, indifferente. In questo senso, ogni opera diventa un atto di ribellione, un’affermazione della propria esistenza, anche quando tutto sembra suggerire il contrario.
Quali sono state le tue principali influenze artistiche e come hanno plasmato il tuo lavoro?
Indubbiamente, il pittore che più mi ha influenzato — per il rapporto con il medium pittorico e la sua storia — è il contemporaneo Victor Man. Non solo dal punto di vista tecnico e della palette — più o meno ristretta — di colori, ma anche per le citazioni dalla storia dell’arte.
Entrambi sembriamo condividere un amore intenso per i « primitivi italiani » e per quei pittori del primissimo Rinascimento, quelli del Quattrocento, della scuola di Siena, il « trait d’union » tra la pittura tardo-medievale e le invenzioni rinascimentali. In questo pantheon io aggiungo Fra’ Angelico, che è una vera delizia per gli occhi e per il cuore, sebbene sia spesso considerato un pittore « troppo devoto ».
Poi ci sono molte altre influenze più contemporanee, che si manifestano più in filigrana e sono meno legate al medium pittorico, come Sarah Lucas, Louise Bourgeois e Eva Hesse, che condividono un legame critico con il patriarcato.
In che modo la tua esperienza personale si riflette nelle tue opere?
Non penso di poter fare altro che parlare della mia esperienza personale. Credo che moltissimi artisti LGBTQIA+ infondano la loro pratica artistica con la loro esperienza di vita. Il mio metodo varia a seconda dei soggetti, ma globalmente parlo sempre della mia esperienza con il mondo — un mondo davvero di merda, devo dire.
Ciononostante, non mi piace ritrarmi né apparire nelle mie opere… preferisco essere una persona « dietro le quinte ». In compenso, adoro e trovo molto divertente ritrarre i miei amici, amanti, boyfriend del momento, ecc.
C’è un’intimità tra me e loro che mi permette di farli posare nudi, a casa loro, con le loro cose, mostrandoli vulnerabili e lascivi.
Come descriveresti il rapporto tra estetica e concetto nelle tue creazioni?
Boh? Penso che coesistano simultaneamente e si influenzino a vicenda. Alcune persone credono ancora fermamente che estetica e concetto siano due cose mutualmente esclusive. Io no. Non penso nemmeno che ci siano legami di causa-effetto tra di essi, perciò non saprei come risponderti.
Estetica e concetto coesistono assieme a tanti altri fattori, come spontaneità e ricerca, figurazione e astrazione, e altri dualismi che, alla fine, tanto duali non sono e creano legami imprevisti tra loro, influenzandosi a vicenda.
I tuoi lavori sembrano spesso esplorare il confine tra realtà e fantasia. Da dove nasce questa dualità?
Ci sono diverse fasi, in periodi diversi della mia vita. Mi sono sempre piaciuti gli universi fantastici dei videogiochi… talvolta davvero psichedelici. Crescendo, sono stati una grande influenza.
Poi ho scoperto il surrealismo, con il suo legame alla psicoanalisi, all’inconscio, al collage e alla sessualità, che mi ha aperto nuovi orizzonti estetici. Infine, questa tensione tra il reale e il fantastico nasce dal mio recente interesse per il « gotico » come filosofia ed estetica.
Non solo il gotico « storico » e quello della letteratura, ma anche quello contemporaneo, che ha influenzato numerosi intellettuali delle « cultural studies », come Jack Halberstam, per esempio. E in effetti, in questo gotico postmoderno, il confine tra realtà e fantasia — o tra realtà e fantasma — è spesso labile, in cui il passato influenza il presente e il futuro ritorna al passato, in una specie di ricorsività molto simile a quella che, in ambito psicologico, viene definita come « psicotrauma ».
Hai un’opera che ritieni rappresenti al meglio la tua evoluzione artistica? Se sì, me ne parleresti?
L’ultimo quadro che ho completato. Un grande formato, ci ho messo quasi un anno per finirlo, con varie pause più o meno lunghe. È stato la sintesi di un paio d’anni di ricerca. L’opera rappresenta una coppia di amici che ho fotografato a casa loro. Con Photoshop ho inserito elementi decorativi tratti da miniature medievali europee, tra cui una coppia di uomini al rogo.
L’idea era di far riemergere un passato che fa parte dell’inconscio collettivo rispetto all’omosessualità: quello della persecuzione.
In questo quadro si sintetizzano forme esplorate in altre opere ma non sempre riunite: la palette rosata con tonalità cupe, la coppia di uomini, il dialogo formale con elementi presi da altre epoche… Non penso sia una sintesi da « conclusione », ma una tappa.
Il contesto sociale e politico in cui ci troviamo ha un’influenza diretta sul tuo processo creativo? Se sì, in che modo?
Ha un’influenza diretta sulla mia depressione, sicuramente. Sul processo creativo, non saprei. No, davvero, non lo so. Non vedo come potrebbe essere altrimenti e allo stesso tempo non riesco a descriverti il perché.
Che ruolo gioca l’interazione del pubblico con le tue opere? È un elemento che consideri durante la creazione?
Non do titoli ai miei quadri perché lo trovo davvero superfluo rispetto a come dipingo e a cosa dipingo, e perché trovo molto divertente il fatto di lasciare che sia il pubblico a descrivere ciò che vede, soprattutto considerando che alcuni quadri sono molto « suggestivi ».
In che modo vivere a Parigi ha influenzato la tua produzione artistica?
Vivere a Parigi è un incubo economico di proporzioni epiche. Quindi, a parte l’ansia su cosa rimane nel mio conto in banca già all’inizio del mese, penso che non abbia particolarmente influenzato la mia produzione artistica, se non in senso negativo. Eventualmente, ti direi che, come in molte capitali occidentali, a Parigi c’è una grande concentrazione di artisti, gallerie, istituzioni culturali, ecc. Questo facilita notevolmente gli incontri, gli scambi e le opportunità per vedere artisti o mostre che altrove non si vedrebbero.
Qual è il tuo approccio alla resistenza attraverso l’arte?
Non credo che la pittura possa resistere a granché, a dire il vero. Il mio approccio, quindi, è più concreto. Penso che « resistere » sia più o meno efficace quando si sta per strada, si dà una mano, si diventa agenti concreti per cambiare i propri dintorni.
Esistono comunque forme d’arte molto più adatte alla « resistenza », come per esempio la musica. La pittura e le famose « belle arti » sono troppo dipendenti dallo status quo, dipendenti dal potere e da chi lo detiene, per potervi davvero « resistere ».
Cosa pensi dell’immaginario iper-maschile oppressivo che tutt’ora pervade la nostra società?
Dipende da come si definisce « iper-maschile », quindi non lo qualificherei come « oppressivo » per essenza. Per me « iper-maschile » è davvero una definizione estetica di uno stereotipo di genere, uno stereotipo problematico perché si inserisce in una retorica normativa, escludente e violenta. Però, quando lo si analizza in un contesto cis-trans-gay, può assumere un altro significato.
Caso pratico: se, a causa della tua sessualità, soffri di dismorfofobia, andare in palestra e coltivare un’immagine « iper-maschile » diventa un’attività di sopravvivenza, per riprendere il controllo su te stesso e sul tuo corpo, e per lenire tutta una serie di ferite che — ahimè — spesso non guariscono del tutto.
In che modo il concetto di “cura” emerge nel tuo lavoro artistico?
Direi che mi prendo cura nel far posare le persone a me care nel modo più rispettoso e confortevole possibile. Cerco di far sì che si sentano a proprio agio e che il mio sguardo su di loro attraverso la macchina fotografica sia non invadente e non oggettificante. Inoltre, scelgo con loro lo scatto che preferiscono, mostro loro il « work in progress » e li invito quando l’opera è finita. Cerco di includerli in tutto il processo.
n che modo il tuo attivismo LGBTQIA+ arricchisce il tuo processo creativo?
Lavorare per associazioni LGBTQIA+ è stato un modo molto efficace per ricollocare l’attivismo e la pratica artistica dove stavano meglio, ovvero: separate. All’inizio della mia carriera mi angustiavo su come far sì che il mio lavoro avesse un messaggio con un impatto politico. Tuttavia, mi sono reso conto che alla fine limitavo moltissimo le possibili interpretazioni di un quadro se cercavo di dargli un significato preciso, definito, che necessitava della mia presenza o di un testo esplicativo. È stato un periodo molto difficile perché davvero non riuscivo a trovare una via soddisfacente.
Per vari motivi mi sono ritrovato a lavorare a tempo pieno per un’associazione LGBTQIA+ e lì ho capito che era molto più concreto e soddisfacente canalizzare il mio attivismo in quel contesto. In questo modo, l’arte è tornata a essere una pratica più ricreativa e più libera, e con essa è tornato il piacere di creare.
Oggi credo che il dialogo tra l’attivismo e il mio processo creativo sia più fluido, seppur rimangano due sfere separate della mia vita.
Raccontaci quale significato ha il rosa nelle tue opere.
Quando lavoravo per le associazioni LGBTQIA+, il rosa era — ed è tutt’ora — un colore importante. Importante perché simboleggia la lotta LGBTQIA+ durante l’epidemia dell’HIV, con il famoso triangolo di ACT-UP New York, che a sua volta riprendeva il triangolo rosa — quello rovesciato della Germania nazista — assegnato agli omosessuali nei campi di concentramento.