Giulia Mei è tra le voci (e le penne) più promettenti del nuovo panorama musicale italiano. “Io della musica non ci ho capito niente” è il suo secondo disco prodotto insieme a Ramiro Levy e Alessandro Di Sciullo e ospita interventi di Rodrigo D’Erasmo, Anna Castiglia e Mille.
Giulia Mei racconta: «Volevo solo fare un disco pieno di vita ordinaria, il diario di una bambina che parla di tutto senza preoccuparsi della forma, senza sovrastrutture, volevo colorare fuori dai bordi, giocare. Questo disco per me è una dichiarazione d’amore al disordine che non mi sono mai concessa per paura, a quella curiosità infantile che non mi ha mai abbandonata, a quel divergere che mi ha fatto sbagliare strada tutte le volte che ho avuto bisogno di liberarmi dalle pressioni esterne della “musica che funziona”. Ma questo disco è dedicato a chi non sa funzionare, se non coi propri unici ingranaggi, e a chi ascolta tutto come se non avesse mai ascoltato niente.» L’abbiamo intervistata.

Nel disco confessi di non averci mai capito niente di musica, eppure sembri decostruirla con rara lucidità. Che rapporto hai oggi con la confusione creativa?
Sì, c’è stato sicuramente un grande lavoro di decostruzione e ricostruzione. Quel disordine che mi sono creata – anche uscendo dai binari che a volte mi ero imposta – mi ha permesso di trovare un nuovo ordine. Oggi cerco ancora la confusione: penso che il caos debba far parte del processo creativo. Il caos è destabilizzante, ma è fondamentale. Anche nella vita: se non esci dalla tua comfort zone, magari riesci comunque a scrivere, ma cadi sempre nello stesso punto.
Credo profondamente nell’evoluzione artistica, soprattutto quando fai un lavoro creativo come il nostro. La vita cambia costantemente, quindi se vivi davvero ma resti sempre uguale a te stesso nella scrittura, forse non stai analizzando a fondo quello che fai. Per me è importante mantenere un rapporto – sì, ancora controverso – con il caos. Ma ci sto.
A proposito di binari, una volta hai detto di voler “colorare fuori dai bordi”. Qual è stato il bordo più difficile da varcare per chiudere questo disco?
Ce ne sono stati diversi. A livello musicale, per esempio, ho dovuto trovare un modo nuovo di suonare il pianoforte, nonostante anni e anni di musica classica alle spalle. Ma il vero bordo difficile è stato umano: superare il dolore di raccontare certe cose molto personali. Mettere quei dolori dentro le canzoni è stato faticoso, ma anche bellissimo. Riascoltandole, mi accorgo che la musica mi ha permesso di dire quelle cose nel modo migliore. A parole non sarei riuscita ad analizzarle con la stessa lucidità.
In “Bandiera” canti: “Voglio uscire la sera e tornare da sola senza la paura del tipo della spazzatura”. Com’è nata l’urgenza di trasformare un’insicurezza personale in un inno collettivo?
Quella frase è stata una delle prime che ho scritto per il disco. Mi sono resa conto che una delle cose che non sono libera di fare è uscire da sola la sera. Da lì ho iniziato a riflettere su tutto ciò che non posso fare. È nato da un’esperienza personale, ma avevo bisogno di parlarne, di sentirmi meno sola. “Bandiera” è un’esigenza di collettività: volevo creare qualcosa che parlasse anche per le altre persone, soprattutto per chi si sente limitato nella propria libertà.
Alcuni si sono offesi per la frase sul tipo della spazzatura, ma chi ascolta davvero capisce che sto parlando d’altro. Non c’è nessuna accusa, è solo una metafora. Volevo che si parlasse di questo tema, e usare il mio linguaggio – la musica – è stato il modo più sincero per farlo. La risposta del pubblico mi ha confermato che c’è un bisogno reale di raccontare queste cose. Per me, “Bandiera” è una canzone di autodeterminazione, che può parlare a chiunque. Per questo sono felicissima di suonarla al Padova Pride: sarà un momento importante, per me e per tutti quelli che si sentono minati nella propria libertà.

Oltre al significato, “Bandiera” ha anche una struttura musicale potente: dalla marcia nuziale a una sorta di rivoluzione sonora. È una canzone vera, un piccolo capolavoro. Ma parlando di macelli… parliamo di X Factor?
(Ride) Sì, portai “Bandiera” anche lì. È stato un momento importante, anche se breve. Io lo rifarei esattamente com’è andato. È facile dirlo a posteriori, ma mi ha dato tanto: è stata la mia prima esperienza televisiva e mi ha formata, soprattutto a livello di performance. E poi ho potuto portare una mia canzone davanti a tantissima gente, con una risonanza enorme.
Spesso mi chiedono se sono arrabbiata per com’è andata. No, per niente. Sono grata. Per me X Factor è stata una tappa, un passaggio. Stavo già lavorando al disco, già con le persone con cui continuo a lavorare. Dopo X Factor abbiamo lanciato il disco, il tour… sono successe tante cose belle. È stata una corsa breve, sì, ma molto rumorosa. E ne è valsa la pena.
Nel disco dici che “la vita è brutta, ma la faccio ballare”. È più catartico cantare la disillusione o riderci sopra?
Entrambe le cose. Sono due facce della stessa medaglia. Cantare la disillusione ballando è una delle prove più difficili per un autore. L’ho imparato ascoltando De André: un valzerino che racconta di Miché che si impicca, oppure “Volta la carta” che parla di dolore su una melodia leggera.
Quella è una forma potentissima di catarsi. Anche io l’ho cercata: parlo del baratro, dell’Europa che si sfalda sotto i piedi, ma ci ballo sopra. E ballarci sopra è già una forma di resistenza. Per me la leggerezza, l’ironia, la satira, anche la frivolezza – quella sana – sono necessarie. La musica deve contenere tutto, altrimenti non racconta davvero la vita. Io in una giornata provo 700 emozioni, e oggi ho anche il ciclo, quindi raddoppia! (ride)
Anche la tracklist del disco rispecchia questa altalena emotiva: da ballad al piano come “Genitori” a momenti punk come “H&M”. Come costruisci l’equilibrio tra forma musicale e urgenza testuale?
In realtà, ogni volta è diverso. È un equilibrio che si costruisce nel processo stesso della scrittura. In questo disco ho davvero cercato di uscire da me stessa, anche a livello tecnico: non partire sempre dal piano, non seguire per forza un iter tradizionale. Lavorare con l’elettronica mi ha aiutata tanto: ho iniziato canzoni partendo da un beat, da un suono, da un frammento di synth, anche da una voce tagliata a caso.
Questo approccio mi ha liberata. Mi ha permesso di trovare forme nuove, anche linguistiche, per parlare di quello che avevo urgenza di dire.
Ti abbiamo vista anche parlare di libertà e di corpi femminili con Non Una di Meno. Volevo chiederti: in che modo la tua musica amplifica o complica il tuo impegno politico?
Diciamo che anche qua io dico sempre che il mio impegno politico è una sfumatura della mia musica. Ecco, io non mi permetterei mai di dire di essere un’attivista, per rispetto agli attivisti che fanno un lavoro enorme, straordinario.
Giorno dopo giorno, nella mia musica parlo di un’urgenza anche politica ed è importante farlo per me, prima di tutto, poi perché amplifico e quindi creo comunità, creo riflessione, arriva magari a piani anche molto più alti.
Questa canzone è stata… non lo so, adesso ricordo veramente: una deputata l’ha letta, è arrivata anche a essere recitata dai giornali, in situazioni appunto di cronaca, non per quanto riguarda il discorso musicale.
Diciamo che questa cosa per me è importante perché mi aiuta a trovare persone attorno a me che vogliono, come me, cambiare le cose, arrivare piano piano verso un mondo in cui non si perseguitano più le persone, in cui le persone non muoiono come è successo qualche giorno fa, che una ragazza di 14 anni è stata ammazzata dal fidanzato perché lei non voleva più star con lui. Sempre di più ci stiamo riavvicinando a una forma, proprio a un immaginario patriarcale e reazionario della prevaricazione, della violenza.
Per cui, in questo senso, parlarne attraverso la musica è molto importante.
A proposito di violenza, anche tu hai subito odio nei tuoi confronti… era la prima volta o purtroppo era già accaduto?
Sarà accaduto qualche volta così, ma con questa mole, con questa forza, no, cioè…
Okay, dico che è la prima volta perché comunque è stata veramente… c’è stata una ondata molto, molto forte.
Ce ne sono state più ondate, anche dopo il 1° maggio, perché è chiaro che quando hai tanta risonanza, prendi tutto quello che c’è, lo trovi ovunque.
E dico stronzi perché è chiaro che io accetto e metto in conto che una persona possa non condividere la mia direzione, il mio modo, il mio messaggio.
Ma quando stiamo parlando di questo, stiamo parlando di persone che… cioè, neanche te li dico i commenti, ma immaginerai: ci sono cose inqualificabili e lì sei stronzo.
Beh, come si dice a Palermo chiesta è acqua mischiata ca terra.
Drammaturgia sembra una meta-canzone, un racconto su come si racconta. Che ruolo hanno la narrazione e il teatro nel tuo modo di scrivere?
Io sono cresciuta con Giorgio Gaber. A 15 anni facevo teatro-canzone, proprio nel senso più letterale del termine. Cantavo, recitavo, scrivevo. Mi sentivo Gaber, nel mio piccolo.
Questa teatralità me la porto ancora dietro, anche se oggi si è un po’ smussata. Mi piace ancora molto il contatto diretto con chi ho davanti, il dialogo nello sguardo. Per questo, per esempio, non riesco a cantare con gli occhiali da sole.
La teatralità è anche nell’arrangiamento, nei live, nel modo in cui certi pezzi vengono interpretati. “Drammaturgia” racconta una relazione e alla fine diventa quasi una carezza al “tu” che mente, perché quando si mente a quel livello, chi ci rimette davvero sei tu. Rimani solo.
Ne “La vita è brutta” parli di “cuore, culo e minima barocca”. È una definizione meravigliosa. Ti chiedo: la contraddizione è un metodo di lavoro per te?
Assolutamente sì. Si vede anche dal fatto che sono palermitana! [ride]
Per me la contraddizione è un punto di partenza, non un ostacolo. È come in quella sonata di Mozart, la n.12, dove c’è una base semplice e sopra qualcosa che sembra dissonante, ma poi tutto si ricompone.
Mi piace pensare alla sintesi, ma non nel senso di semplificare o togliere. Al contrario: aggiungere, costruire. Una sintesi che accoglie le contraddizioni e le trasforma in qualcosa di nuovo.
E poi sì, siamo tutti contraddittori. Tutti. Parlo spesso di ipocrisia, di cattiveria atavica, di quei meccanismi che ci auto-insegniamo e che poi ci incastrano. La creatività, per me, nasce anche da lì.
Facciamo un passo indietro. Dal tuo disco precedente, “Diventeremo adulti”, oggi sembri più tagliente, meno accomodante. Cos’è cambiato?
La vita. Le cose che mi sono successe. Un certo livello di disillusione.
In sei anni si cambia tanto. Mi sono accorta che i fiorellini ci sono, sì, ma ci sono anche le spine. Prima avevo un modo di cantare un po’ più carico, più sovrapposto. Oggi ho cercato un’intimità diversa, più scarna ma anche più autentica.
Con i miei produttori ho fatto un lavoro per ritrovare una vocalità essenziale, che fosse più vera. Che mi permettesse di dire delle cose che, forse, non saprei nemmeno spiegare a parole. Ma che nel canto trovano forma.


Ci sono degli artisti, autori, poeti, cantanti che ti fanno proprio venir voglia di sederti al pianoforte?
L’altro giorno ho riscoperto la produzione di Fanny Mendelssohn, sorella di Felix Mendelssohn. Di lei non se ne parla mai, perché è stata sotterrata dalla storia e perché è donna. Un talento molto maggiore rispetto a quello del fratello. Scriveva delle cose bellissime, era la sua mentore… ma era donna. Ho riscoperto i suoi lavori, delle cose bellissime e proprio mi ha fatto venire voglia di suonare.
Il pubblico che canta “Bandiera” con te ha cambiato il senso della canzone? C’è stata una reazione dal palco che ti ha spiazzata?
Intanto, per quanto riguarda Bandiera, già il fatto che le persone la cantino per me non l’ha portata a termine: è arrivata a destinazione.
Cioè, questo è quello che io speravo: che arrivasse alle persone, proprio quella canzone — ma in realtà tutte le canzoni. A Roma, l’ultima volta sono scesa dal palco ad abbracciare una ragazza in prima fila, perché piangeva a dirotto. Ho sentito proprio questa connessione enorme con lei. Queste cose mi danno consapevolezza e mi fanno pensare che allora quello che ho scritto è vero.
Ci tengo molto alle persone che mi vengono a sentire. Anche dopo il concerto, sono sempre molto disponibile a parlare, ad ascoltare, perché comunque ho sempre l’impressione che è — boh — è bilaterale, questo rapporto. E questa cosa l’ho capita veramente da quando è iniziato questo tour, perché è successa questa cosa, di questa connessione così forte.
La gente veramente viene per te, ascolta. È venuta col disco, magari è venuta per le tue canzoni. E questo, sì: ha dato un nuovo significato a quello che faccio. Senz’altro.
Senti, se domani qualcuno ti dicesse o ti scrivesse che grazie alle tue canzoni si sente libero, o grazie alle tue canzoni si sente una persona diversa, ecco, cosa gli diresti?
Ma guarda, in realtà questa cosa già mi è successa, mi hanno già scritto tante persone
E io ho sempre risposto. Chiaro è che ogni risposta è diversa ma più o meno dico “grazie per averlo condiviso con me” intanto, perché non è detto e non è scontato che una persona si apra.
Cioè, chi cazzo sono io alla fine? Sono un’estranea
È bello sentirmi connessa con le persone che mi scrivono.
Qual è la cosa più incomprensibile che la musica ti ha insegnato finora?
I limiti. Nell’amore, nella musica. Questo disco parla anche di limiti di come puoi riscriverli e ridefinirli. Trovo i limiti incomprensibili.
L’ultimo disco di cui ti sei innamorata?
Mi è molto piaciuto l’ultimo disco di Giorgio Poi, ultimamente sto ascoltando un po’ di elettronica e sto aspettando con ansia il nuovo disco degli Odesenne che è questo questo gruppo francese perché mi piace molto il pop francese, E poi sto riscoprendo non più da studentessa ma con con orecchie nuove, le sinfonie di Mozart.
Giulia Mei – Io della musica non ci ho capito niente
Giulia Mei