MFW Milano Fashion Week, le review delle sfilate

La Mfw a Milano da un po’ di tempo si muove a rilento, apparentemente messi da parte i nuovi propositi di inclusività nei casting sui front row e sui vestiti che tornano di nuovo a vestire corpi fino alla tg44 per collezioni quasi tutte prive di messaggi ma piene di vestiti che fanno da contorno a chi ancora invece crea moda.

Ad aprire la kermesse la poesia di Antonio Marras, il designer sardo che punta tutto sull’emozione, sulla forza delle donne partendo da Grazia Deledda come riferimento.

Grazia Deledda è un personaggio che non avevo mai avuto il coraggio di sfiorare, che ho sempre ammirato da lontano per pudore ma questo mi sembrava il momento giusto per raccontare la storia di come una donna determinata può raggiungere i suoi obiettivi.

Antonio Marras

Grazia Deledda nasce a fine Ottocento, ha la quarta elementare, decide di fare la scrittrice e si trasferisce a Roma dove sposa un uomo che diventa il suo segretario: con costanza, forza e determinazione alla fine ottiene il premio Nobel nel 1926 per la letteratura.

Per raccontare questa storia che, come sempre per lo stilista, parte dalla Sardegna, Marras ha disegnato una collezione “nuragico-moderna, arcaico-contemporanea”. In passerella, cappotti e abiti realizzati come antichi tappeti sardi, maglioni di lana grossa incrostati di pizzi e ricami, stampe floreali e pantaloni-calza, completi di broccato e maxi felpe portate con il kilt lungo per tutti.

Diesel da sempre combatte per la democrazia e non è solo la montagna di 200.000 preservativi che fa da scenografia ad una collezione libera, piacevole e sperimentale il cui punto di partenza è la sex positivity.

Glenn Martens poco alla volta sta portando il brand di Renzo Rosso verso un mondo più couture senza dimenticare lo streetstyle e il clubbing. Il suo approccio ironico ma riflessivo non è da sottovalutare.

Insoddisfazione, inadeguatezza, disagio esistenziale e il tipico atteggiamento di chi è abituata alla nonchalance: più che l’abito può l’attitude misto al linguaggio del corpo che da solo racconta e abbatte i cliché trasformando le regole in possibilità di cambiamento, stravolgendo le abitudini e i riferimenti che perdono il loro significato primo.

La collezione di n21 by Alessandro Dell’Acqua mette in crisi le certezze e mette in discussione abiti e luoghi d’abitare (che poi sono i vestiti stessi) riempiti di cultura e di abitudini culturali che segnano la vita e la moda nel nostro contemporaneo.

In sottofondo la voce di Monica Vitti, negli abiti la sensualità e la femminilità di Jeanne Moreau e le contraddizioni rinchiuse tutte dentro la nuova borsa, Edith che è desiderabile senza avere l’arroganza di voler diventare una it bag. 

Alessandro Dell’Acqua ha iniziato a lavorare pensando a due figure femminili create dal cinema degli anni Sessanta ma che sembrano caratterizzare molto i nostri tempi. Monica Vitti e Jeanne Moreau nel film La notte, ma anche la sola Vitti in Deserto rosso, di Michelangelo Antonioni.

Sono gli anni della messa in discussione e dell’insoddisfazione provocata dai traguardi sociali raggiunti. Ma anche quelli della scoperta della sensualità, perfino dell’erotismo, insieme all’uso spregiudicato per l’epoca – della scaltrezza e della perfidia. Sono gli anni in cui cliché della provincia italiana e della media borghesia si sgretolano messi di fronte a un mondo in mutazione. Certo, poi ci sono riferimenti al periodo d’oro di Prada e di Lang ma ci stanno tutti perché non sono urlati, non sono copiati, sono omaggi.

Oggi al designer interessa lo stesso atteggiamento che ricerca il nuovo senza nascondersi nella comodità delle certezze e per questo ha messo insieme molti cliché del guardaroba femminile per meglio identificarli, stravolgerli, abbatterli o semplicemente sdrammatizzarli. In questo modo Dell’acqua sceglie di lavorare non attraverso le forme e volumi ma dando ai vestiti la possibilità di mettersi al servizio di un linguaggio del corpo molto libero che così diventa automaticamente anche molto sofisticato. BRAVO.

A quanto pare la sartoria è il “nuovo” Graal della moda e questo vuoldire che MM6 è sulla buona strada. Il team di creativi per la prossima stagione ha presentato pezzi ibridi su misura, stratificati di cultura, umanità e poi decostruiti/ricostruiti.. come fosse un best of degli insegnamenti di Martin.

Da sempre il team di creativi di MM6 ha delle regole ben precise tra cui quella di avere sette modi diversi per interpetare il concetto del gruppo di tre (modulazione di assemblare e smontare i capi dando loro diversi significati e funzioni).

Ora, anche se alcuni pezzi sembravano piuttosto elaborati i risultati li ho trovati interessanti per via della loro realtà concettuale. Il compito di MM6 è quello di rendere i vestiti cool ma comunque indossabili per questo non gliene frega niente di finire sulle riviste patinate ma di essere indossati dalle persone vere perché la moda deve scatenare emozioni.

Va precisato che MM6 non ha un atelier, lavora industrialmente e che il più delle volte utilizza materiali umili e molto semplici perché come ai tempi di Martin il tutto è creato da molte persone poiché si tratta di umanità e va costruita insieme. 

La prima volta che vidi uno show di Marco Rambaldi (credo il primo) piansi, ricordo di avergli scritto personalmente dicendogli che in lui vedevo la speranza di una rinascita della moda italiana, una novità, una via d’uscita dallo stereotipo. 

Col tempo ho cambiato idea, penso sempre che abbia grande talento ma penso anche che le persone intorno a lui non lo stiano aiutando a metterlo in mostra. 

La sua ultima collezione, Supernova, Non ha brillato come il nome suggerirebbe anzi l’ho trovata piuttosto sottotono. I riferimenti al Cocoricó non hanno legato bene la storia che forse il designer voleva raccontare.

Pochi colori, stampe opinabili, a salvare il tutto le pelli recuperate dal deadstock e il lavoro magistrale sulla maglieria, infatti è finalista del woolmark prize 2023.Si può fare di più e Marco ha tutto il tempo per farlo. 

Kim Jones da Fendi inizia a perdere colpi, o forse la bussola del suo Apple Watch non funziona più benissimo. La collezione per il prossimo autunno/inverno è tutto un gioco di archivi, di Karl Lagerfeld e di tirate di orecchie da parte di Silvia Venturini Fendi.

In passerella look per certi versi severi, spesso colorati e molto lineari. Ci sono le stampe del 1996 e alcuni disegni di Lagerfeld dell’81, poi ci sono le gonne tagliate a metà e altre che si allargano ai lati per via di alcuni pannelli e qui Karl si sente ancora fortissimo. Le borse, vero fiore all’occhiello del brand, questa stagione pare passino in secondo piano. Kim cosa devo fare con te?

Marco De Vincenzo mi è sempre piaciuto perché ha sempre fatto le cose a modo suo. Il suo lavoro da Etro, iniziato da pochissimo, lo vedo più come uno studio di estrazione, una ricerca del suo io più creativo. 

Questo significa che il ragazzo di Messina è disposto a scendere a compromessi con l’eredità di un brand dall’estetica bohemien anni ‘70 accostato alla precisione strutturata e geometrica tipica del designer a cui ci ha abituati dal 2010 con la sua linea omonima, purtroppo oggi fuori produzione.

La nuova collezione si chiama Radical Etro e Marco come un archeologo affronta il passato per scoprire la luce del suo futuro. 

In passerella abiti romantici molto etro ma con il tocco di Marco e cappotti con accenni che richiamano i copriletto (qui il collegamento con la collezione molto domestica presentata a gennaio) Per De Vincenzo, migliorare la competenza tessile di Etro “è un dovere”.

A tal fine, ha intervallato numeri di chiffon ariosi con tute slim-fit con stracci allungati, tagliati in ricchi broccati del XVIII sec. o cappotti realizzati in trame a maglia multicolor malleabili a doppio petto, la prova inconfutabile che Marco rispetta il brand ma non è succube. Marco De Vincenzo non è cambiato, ama il rischio anche se non è un sovversivo. E oggi niente è più radicale di questo. 

Andrea Incontri da Benetton porta in passerella l’idea della serialità e del ciclo che si ripete dando alla collezione il titolo di Infinity.

Nel ciclo della ripetizione della moda, l’infinito definisce perché, come indica il suo segno (un 8 sdraiato in orizzontale) è un percorso che non ha mai fine: come Benetton, che nato nel 1965 ha percorso cicli su cicli per arrivare a questa collezione che è il secondo appuntamento di Andrea Incontri, designer sottovalutato ma con un grande potenziale.

Sono convinto che l’approccio del nuovo direttore creativo che ha il compito, seppure non dichiarato, di riportare Benetton a quella notorietà che l’ha portato a rappresentare la moda possibile all’Italiana ancora prima della nascita del pret-à-porter e del made in Italy possa funzionare.

Filippo Grazioli alla sua seconda collezione da direttore creativo di Missoni convince sempre di più.

Se alla sua prima ho scritto che mi sarebbe piaciuto vederlo giocare con i codici della casa con un approccio più libero e audace, senza paura posso dire di essere stato accontentato.

Per la sua nuova prova per Missoni, parte da una fioritura di rose incontrata in archivio.

Ho visto le cartella stampa scritta da Anna Piaggi per una sfilata del 1984. Parlava delle rose e della storia d’amore tra Rosita e Ottavio Missoni.

Filippo Grazioli

Lo show si tiene a Palazzo Mezzanotte e varcato l’ingresso anni 30, si entra in una sala dagli sgabelli circolari con velari di tela dalle rouches, in tre curve continue. Sui seat, ma anche su alcuni inviti la scritta, «Do you remember the first kiss?». Lo show parte e subito si respira aria di evoluzione.

La sua una donna che nella molteplicità trova se stessa, in bilico tra le silhouette che segnano il corpo e lo allungano e i volumi decisi che lo avvolgono nel tailoring di ispirazione mannish.

Il gioco delle proporzioni è costante, nei capi e nei disegni, nel micro e macro che continuamente si congiungono e alternano, dai blouson ai fiammati, fino al famosissimo e ai noioso zig-zag.

Fiammati, zig zag i e poi un tripudio di rose, finanche selvagge quando fuse con macchie animalier.

Giustissimo lo styling di Lorenzo Posocco, uno tra i pochi stylist in Italia che sa come fare il suo lavoro. Bellissime le borse che ricordano i codici della casa e che potrebbero, finalmente, far entrare Missoni nell’universo sempre più vuoto degli accessori. Bravo!

Matthieu Blazy è per me uno tra i migliori nuovi designer in circolazione. Sa tagliare un abito, dare un senso di novità e appeal a qualcosa che visto fino a ieri sembrava irrilevante.

Questa nuova visione di Bottega Veneta è praticamente perfetta, il designer ha il potere di ribaltare ogni pensiero che si ha sulla moda che vediamo oggi. Blazy riesce ad arrivare al punto in cui il desiderio della moda incontra la necessità del vestito e manda in scena una collezione che riesce a raccontare tutte le tensioni del presente.

Se poi mixi l’incontro tra la classicità del passato e l’urgenza futurista di Boccioni che spiega non solo la voluta dissonanza dei vestiti che si incrociano in passerella ma un procedimento creativo che ha del coraggioso in un’epoca di appiattimenti sulle figure rassicuranti, Blazy rischia ma comunque riesce ad indicare un sentiero, una strada, una direzione per un percorso futuro che non ha bisogno di urlare quanto siamo fighi e quanto siamo bravi. A questo giro, il migliore in assoluto.

Che dire di Prada? Per uno come me che ama profondamente il brand di Miuccia oggi è molto difficile dire qualcosa di positivo. Prada non si ripeteva mai, Prada dava sempre lezioni di stile, di moda e di cultura, oggi Prada fa vestiti o almeno è così da quando c’è il badante Raf. Anche la scelta musicale sta diventando banale, i concetti che provano a raccontare qualcosa che è esattamente come le ultime collezioni dal 2020 in poi servono come specchietti per le allodole e per riempire le pagine dei quotidiani finanziati dal gruppo. I fiori applicati sulle gonne, i ricordi di fw14 – fw2007- e le ossessioni di Raf ridotte all’osso per dargli il contentino. Peccato.

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