Rhye: lodi mattutine e disco music domestica

Nel terzo disco dei Rhye di Mike Milosh ritroviamo il canzoniere pop sensuale e gentile che abbiamo sempre amato che abbraccia sonorità disco da dimensione domestica, da interno giorno, ma con una grande finestra sul mondo là fuori, alle prime luci dell’alba.

Chissà se ultimamente vi è capitato di svegliarvi molto presto destati dall’insonnia? “Home” allora è un respiro da meditare, un flusso distensivo. E l’amore per la luce e i colori delle prime ore del giorno, ci restituiscono le immagini e la musica, in una sinfonia sinestetica.

Come lo scatto di copertina, con la sua doppia esposizione, le canzoni di “Home”, ascolto dopo ascolto, ci avvolgono con le loro sfumature, come linee del corpo della propria amata che diventano sensuali groove di benessere. Queste e altre suggestioni sono emerse dalla chiacchierata da zona rossa con Mike Milosh, che ci ha rivelato molte cose, tra musica ambient e meditazione, opere monumentali, fotografia, vasche da bagno, cervi; elementi preziosi per avventurarci con il disco dell’artista canadese, che ormai ha trovato dimora nei dintorni di Los Angeles, nuovo epicentro creativo, in attesa che la sua casa sia nuovamente il viaggio e il palco di un concerto.

Rhye-by-Emma-Marie-Jenkinson
Rhye by Emma Marie Jenkinson

Ciao Milosh, spero tutto bene, l’ultima volta ci siamo salutati con le parole di “Stay Safe” – «You wanna lay low, you wanna stay safe, let’s make a home», alla fine hai messo su casa, anche in un disco.

Sì, è stato malauguratamente singolare direi. Chi l’avrebbe mai detto? “Stay Home” profetizzava il fatto che avremmo dovuto ripensare la casa in maniera diversa, come un bastione dove ricreare la propria sicurezza.
Una strana connessione con questo disco e il suo titolo.

Com’è stata la tua dimensione domestica, la creatività, la convivenza con Geneviève?

Mi rendo conto che per noi è stato un anno incredibilmente fortunato: abbiamo comprato casa a febbraio e ci ho costruito uno studio di registrazione. Viviamo in cima a una montagna, poco distanti da Los Angeles. In un certo senso ho dato forma alla mia casa con l’idea in testa di uno spazio pensato per la creatività: tra fotografia, spazi per girare i video e ovviamente per registrare. Abbiamo acquistato casa prima della
pandemia e siamo stati davvero fortunati: anche perché non ho mai comprato una casa in vita mia! Sono sempre stato abituato ad essere un viaggiatore a tempo pieno, facendo molti concerti.

A proposito del tuo rapporto con Geneviève come musa e soggetto dei tuoi scatti fotografici, i tuoi primi dischi erano avvolti in una copertina in bianco e nero, ora la tua musica è a colori?


I primi due dischi dovevano essere in bianco e nero. Da “Spirit” ho sentito che doveva subentrare il colore.
E poi questo disco è molto di più sul modo in cui i raggi del sole illuminano una montagna. E ci sono stati tanti giorni in cui mi sono svegliato alle tre, alle quattro o alle cinque, per fotografare l’alba. I colori in questo disco sono proprio relativi all’alba. E poi sì, c’è la copertina: abbiamo una vasca da bagno fuori e ho immortalato Geneviève mentre esce dall’acqua, ed è diventato un livello su cui lavorare per la copertina del
disco.

Rhye INTERVISTA MIKE MILOSH


Dalle fredde acque islandesi della copertina di “Blood” a quelle miti losangeline per “Home”, insomma! Pur con tutti i locali chiusi, il 2020 è stato un anno segnato musicalmente da un revival disco in ambito
mainstream. Pensi che “Home” sia la tua visione disco adatta per le mura domestiche?


Già, una disco per il giorno! Non so se sia realmente un lavoro disco. Di sicuro c’è un’unione di molti generi: musica classica, cori gregoriani, elementi del rock classico – penso a T-Rex e Fleetwood Mac – e ovviamente
qualche beat per la pista da ballo, soprattutto in “Sweetest Revenge” e ovviamente “Black Rain”. Ecco, a dire il vero, quegli archi ‘tararararà’ (accenna al motivo di archi, NdA), sono proprio una cosa così disco! In
realtà la mia idea era quella di un disco eclettico. E forse la dimensione disco, a differenza di quella techno o di altri generi da due di notte in un club, tra edonismo e oscurità, è un po’ più giocosa e luminosa.

Hai menzionato “Black Rain”, come sei finito a lavorare con la coppia Aaron e Sam Taylor-Johnson per il videoclip?

Siamo molto amici, passiamo molto tempo insieme! Quando ho chiesto ad Aaron del video ero parecchio nervoso al riguardo, perché comunque parliamo di un grande attore! Ma mi sono fatto forza e gli ho
chiesto – «Hey, ti andrebbe di apparire in un mio videoclip?» – «Certo che mi piacerebbe!» E poi mi dice – «Che ne dici se a dirigerlo ci fosse Sam?» – «Ma ovvio! Sarebbe fantastico!». Amo il lavoro di Sam, così come amo Aaron. Il giorno delle riprese dovevamo fare un semplice di test della camera e Aaron ha fatto due take. Guardandoli, ci siamo resi conto che quello sarebbe stato il video fatto e finito, ci è sembrato che evocasse molta energia, quella voglia di ballare e lasciare andare via i problemi. Una camera, un take, una danza!


È molto bello perché c’è una certa simmetria nel lavoro artistico di coppia. Così come Geneviève prende parte al tuo lavoro con la regia dei videoclip. In quello di “Helpless”, un giovanotto, interpretato da Xuly Williams, non sembra molto contento di andare in questo centro di meditazione, eppure sembra trovare gioia – e forse l’amore. Ci racconti di una cosa che hai fatto con poca spinta, o magari paura, che è finita per diventare una cosa grandiosa?

Oh, penso ai miei esordi in cui avevo molta paura di salire sul palco. Ricordo uno dei primi concerti da solo come Milosh in Spagna. Doveva essere il duemila… forse il 2007. Pensavo si trattasse di un minuscolo
concerto e quando arrivo scopro che ci sono tipo 2500 persone. Non mi sarei mai immaginato così tante persone, ma avevo preso l’impegno e non potevo certo tirarmi indietro! Ero terrorizzato, sentivo una
grandissima paura. Piano piano, concerto dopo concerto, recensione dopo recensione, inizi a costruire la tua confortevolezza sul palco e non ti resta che abbracciarla. Se qualcosa va storto, accettalo! Se il tuo amplificatore ti molla a metà concerto, ridici su, stai al gioco! Realizzi che nulla di tutto ciò è fatto per metterti paura, ma è una circostanza di divertimento. E allora ho ripensato alla mia dimensione dal vivo.

Sei un multistrumentista e sul disco suoni quasi tutto tu, ma non sapevo che avessi praticato anche il violoncello!

Sì, ho iniziato davvero da piccolo. Mio padre è un violinista e mi ha iniziato al violoncello quando avevo tre anni con il metodo Suzuki. Poi ho iniziato a prendere lezioni e suonare con mio padre nel suo quartetto, fino a unirmi a un’orchestra quando avevo undici, dodici anni. Ero molto connesso con il mondo del violoncello classico, poi a quindici, sedici anni, ho iniziato a suonare la batteria e fare rock psichedelico, cose Motown, fino ad approdare in una scuola jazz e poi di produzione. Sicuramente la mia formazione mi ha permesso di comprendere molti aspetti del songwriting e della produzione. Ora non suono più il violoncello, ma mi piace sempre scrivere gli arrangiamenti d’archi. Di solito suono tastiere o piano e le parti
di batteria. L’unico strumento che non mi piace suonare è il basso: quando suono il basso non esce mai niente di buono! Faccio sempre in modo che qualcun altro suoni il basso.

Il tuo disco si apre e si chiude con un coro. Come sei riuscito nell’anno della pandemia ad avere il Danish National Girls’ Choir nel tuo disco?

Abbiamo fatto un concerto insieme tre anni fa. È stata, dal punto di vista musicale, una delle notti più belle della mia vita. Ho continuato a parlarne e sognare di averle su disco. E poi è una di quelle cose che è successa. A forza di insistere le porte si aprono!

Ci racconti della vostra esperienza con i Secular Sabbaths che organizzate e come avete fatto quest’anno?

Prima della pandemia facevamo eventi di 12 e 24 ore, siamo arrivati anche a due giorni. Chiamiamo artisti differenti che eccellono nel loro ambito per fare set di musica ambient. Di solito ciascuno fa un’oretta, io sono arrivato a farne due, quattro. Succedono tante cose. Nell’ultimo che abbiamo fatto a Los Angeles, uno chef che preparava cena e colazione, c’erano persone che venivano giorno e notte e si fermavano a dormire: c’erano 300 persone a dormire in questo tempio! E poi c’è la musica che va avanti tutta la notte, è
davvero folle! Abbiamo centri meditazione, massaggi, cerimonie del tè. È un’esperienza dolce e psichedelica. L’anno scorso ne abbiamo fatta qualcuna minuscola per piccoli gruppi di amici. Probabilmente la più bella
del 2020 è stata quella in cui siamo riusciti ad andare al Roden Crater: l’opera monumentale vulcanica di James Turrell nel deserto dell’Arizona. Ho fatto una performance veramente stupenda sul fondo del cratere. È stato davvero magico!

Wow! Che meraviglia! Avete fatto qualche registrazione?

Sì, ma penso che non renda veramente l’esperienza, sono eventi che necessitano di essere vissuti in prima persona. Ma una cosa che faremo sicuramente sarà di rilasciare qualche pubblicazione di musica ambient,
mia e di altri musicisti.

Sono molto curioso perché sono un grande fan dell’ambient music. A proposito di ambiente, tre cose che non possono mancare nel tuo ambiente domestico?

Intendi eccetto Geneviève, i miei gatti e il cane? (Ride, NdA). Adoro il mio studio di registrazione. Il modo in cui l’ho pensato per il fluire del mio lavoro: riesco ad essere davvero creativo e produttivo. Amo i due alberi
di sicomoro che abbiamo e l’enorme quercia. Sotto la quercia abbiamo messo una vasca così che si possa fare il bagno, ovviamente non tutti i giorni, ma capita. E poi il selvaggio! Alle volte sono seduto là fuori a
suonare e appare un cervo e mi osserva. È davvero strano, ho notato che se te ne stai tranquillo si spaventano e se ne vanno, ma se continui a cantare, fare umore e comportarti come se nulla fosse restano a guardarti.

RHYE MIKE MILOSH INTERVISTA

E una cosa che ti manca della vita prima di questa pandemia?

Mi manca la musica dal vivo.

Stavo giusto per aggiungere, a parte la musica dal vivo? Sei ancora amante del cinema?

Sì, sicuramente. Mi manca andare al cinema. Probabilmente la mia cosa preferita da fare non inerente alla musica. I film sono meravigliosi, ma al cinema, non è la stessa cosa guardarli al proprio laptop. Meglio di
niente eh, ma mi manca stare in una sala con il grande schermo e il mondo intero che si dissolve dentro il film.

Ah, come ti capiamo! Speriamo di tornare presto in sala, ma soprattutto spesso alla musica dal vivo. Speriamo di vederti presto in Italia. Grazie per questa chiacchierata, a presto!

Rhye intervista Mike Milosh Rhye intervista Mike Milosh Rhye intervista Mike Milosh Rhye intervista Mike Milosh Rhye intervista Mike Milosh