35° MiX Festival. Le proiezioni consigliate da Toh!

Dal 16 al 19 settembre la 35a edizione del MiX Festival Internazionale di Cinema LGBTQ+ e Cultura Queer torna a Milano e online su Nexo+. 

Un punto di riferimento per la comunità queer milanese e italiana che, come ogni anno, propone una rassegna – non solo di cinema – che fotografa i grandi e piccoli temi che caratterizzano la cultura LGBTQ+. 

Il MiX Festival, di cui Toh! Magazine è media partner, ritorna in forma ibrida in tre diverse location : Piccolo Teatro Strehler, il Teatro Studio Melato e il cortile di Palazzo Reale che ospiterà la Flying Tiger Mix Young Arena. Inoltre il Festival potrà essere seguito in streaming tramite la piattaforma online Nexo+.

Cosa vedremo nei tre giorni del MiX Festival?

Di sicuro i premi più attesi che caratterizzano il festival, dal premio More Love, consegnato a chi ha speso la sua vita lottando contro ogni tipo di odio e discriminazione, che verrà assegnato alla senatrice Liliana Segre. 

E poi i premi Queen of Comedy e Queen of Music, rispettivamente a Veronica Pivetti e Francesca Michielin, quest’ultima sarà premiata da Ema Stokholma, madrina della serata conclusiva del Festival. 

Tanti eventi speciali, come l’anteprima della serie tv spagnola rivelazione  Veneno, e tanti incontri con personaggi, influencer e intellettuali che, con il loro lavoro, si battono per portare la cultura queer nel mondo.

Non mancano di certo, come di consueto, i tre concorsi che negli anni, dal 1986 ad oggi, hanno fatto e continuano a far conoscere al pubblico opere e cineast*, affermati e non. Lungometraggi, Documentari e Cortometraggi: queste le tre sezioni che costituiscono una kermesse di oltre settanta titoli da tutto il mondo e giudicati da tre giurie presiedute da Juliette Canon, Pilar Monsell un gruppo di giovani universitari rappresentanti lo spettro della comunità LGBTQ+. 

Tra lungometraggi e documentari, Valentina e Madalena sono le prime due anteprime italiane che apriranno il festival.

Ma troveremo anche Swan Song con il mito di Udo Kier, Aos Nossos Filhos di Maria de Medeiros e Jump Darling di Phil Connell. 

Film già acclamati in molti festival internazionali come Feast, sul caso HIV di Groningen, il bel Glück di Henrika Kull e Poppy Field del rumeno Eugen Jebeleanu

Spazio anche alla ricostruzione del passato, con un gruppo di opere che ripercorrono la storia del movimento LGBTQ+ in diverse parti del mondo. Mix Festival

Sette sezioni per i cortometraggi che spaziano tra i più svariati temi, con protagonist* alla ricerca della propria libertà e identità, mantenendo anche uno sguardo rivolto al pubblico più giovane.

E accanto alle proiezioni, incontri, discussioni, musica, cabaret e spettacoli dal vivo con MiX Book Klub e MiX Music! 

Torna al MiX festival anche il consueto spazio dedicato alla musica, MiX Music!. Ospiti d’eccezione saranno i Melancholia che, dopo aver confezionato la sigla Love Matters dell’edizione di quest’anno, saliranno sul palco dello Strehler nella serata conclusiva del 19 settembre e accompagneranno l’assegnazione dei premi finali con il loro rock graffiante.

MiX Music! è la programmazione musicale del MiX, a cura di Simone Bisantino e Protopapa, già lanciata nella precedente edizione, che animerà le notti del festival di quest’anno non solo sul palco dello Strehler ma anche nell’inedita “Flying Tiger Mix Young Arena”.

Nel cortile di Palazzo Reale, con la collaborazione delle più importanti crew della scena musicale italiana e la partecipazione degli artisti che più rappresentano l’identità  poliedrica del Festival, a favore dell’intersezionalità e dell’inclusione.

Durante le quattro giornate MiX Music! con una programmazione che guarda al panorama musicale giovanile ospiterà il glam-pop elettronico di Sem & Stenn, l’R&B vellutato di David Blank e la disco retro-futurista di Thomas Costantin. MiX Music! si farà sentire anche attraverso le sperimentazioni elettroniche, con il reggaeton romantico di Vergo, le sperimentazioni audio-visive di NAVA e il pop raffinato di Blue Phelix.

Sul palco dello Strehler anche le performance creative di Ella Bottom Rouge e la sua scuola di burlesque Rogue Academy e della crew di DRAMA Milano, noto queer cabaret milanese.

Inoltre, in occasione del 40° anniversario del mitico Club Plastic, sarà consegnato il 17 settembre un premio speciale in memoria di uno sei suoi fondatori, Lucio Nisi.

Non mancheranno poi le performance che animeranno il sagrato del Teatro, a cura della compagnia Dogma Theatre e dell’artista Nicola Mette

La 35a edizione del MiX Festival riapre i battenti all’insegna del motto Love Matters, includendo non solo le vite della comunità queer, ma anche di tutte quelle minoranze che ancora oggi, in ogni parte del mondo, si battono per vedere riconosciuti i propri diritti. 

Un festival all’insegna dell’inclusione, dell’amore e dell’accettazione che diventa sempre più imprescindibile, pronto a tingere di colori la metropoli milanese. 

Non ci resta che aspettare che si aprano le danze del MiX Festival, e seguirlo con Toh! Magazine dal 16 settembre.

Testo di Giuseppe Di Rosalia


Le proiezioni del MiX festival consigliate da TOH! Magazine


Aos Nossos Filhos

Regia di Maria de Medeiros
Lungometraggio, 107’. Brasile, 2019
Sabato 18 Settembre, ore 20.00.
Piccolo Teatro Studio Melato
Tratto da un’opera teatrale di Laura Castro, qui in veste di attrice nel ruolo di Tânia e sceneggiatrice accanto a Maria de Medeiros, nota attrice e regista portoghese, Aos Nossos Filhos – come il titolo di un noto canto di lotta brasiliano – è un ritratto intergenerazionale che racconta molto dei nostri tempi.

Da un lato troviamo Vera, ribelle ai tempi della dittatura militare brasiliana e ora coordinatrice di una ONG, un rifugio per orfani da AIDS, dall’altro la figlia Tânia, aspirante giudice – non televisivo – che insieme alla compagna sta tentando la strada dell’inseminazione.

Quello di Maria de Medeiros è un film che racconta una storia di donne e al contempo investiga in maniera puntuale su questioni come la maternità, la democrazia – l’ombra di Bolsonaro, l’accettazione del lutto, lo stigma dell’HIV, l’adozione e le coppie omogenitoriali.

Senza morale o dispensare verità, ma con passo felpato – come il gatto della prima inquadratura – fornendo spunti interessanti.

Su tutti, sembra emergere lo scontro generazionale: da un lato chi ha combattuto le sue battaglie e fatica a comprendere quelle odierne, dall’altro nuove generazioni che sembrano poco predisposte alle critiche e al dialogo.

Così una madre graffiante viene allontanata se esprime il suo punto di vista o una figlia ci sorprende con pregiudizi che non dovrebbero appartenerle.

Maria de Medeiro, invece, sembra assente dal giudizio e mette in luce le contraddizioni dei nostri tempi in un film che invita a non tacere e alla profonda comprensione dell’altro da sé.

Testo di Francesco Mascolo


Feast

Regia di Tim Leyendekker
Lungometraggio, 84’. Paesi Bassi, 2021.
Anteprima italiana con la presenza del regista
Sabato 18 Settembre, ore 22.15
Piccolo Teatro Studio Melato
Toh! Magazine
Non un vero film di finzione, ma nemmeno veramente un documentario: forse un «saggio cinematografico», come l’hanno definito alcuni – o «un insieme di cose», come l’ha definito il regista stesso.

Divisa in sette parti (riprese da sette diversi autori della fotografia), la pellicola «non fa un resoconto di ciò che è realmente accaduto», ma anzi cerca di smembrare i fatti del caso di Groningen – cittadina nei Paesi Bassi in cui, tra il 2007 e il 2008, tre uomini furono processati e condannati per aver deliberatamente trasmesso l’HIV a dodici persone, durante quelli che oggi definiremmo chemsex party.

I media nazionali (e si intende: nazionali olandesi) affrontarono il caso giudiziario identificando subito i buoni e i cattivi, indignandosi per la scarcerazione anticipata di uno degli “untori”, che tornò a esercitare la professione di infermiere prima di essere definitivamente radiato.

Ma, col passare del tempo, la storia mostrava tutta la sua ambiguità, evidenziava quanto sia labile il consenso e quanto pregiudizio si celi dietro a un certo tipo di desiderio; alcuni chemsex party, alcune orge senza preservativo, vengono tuttora organizzate anche per volontà di chi è sano, che vuole contrarre il virus e smettere di preoccuparsi della malattia.

È all’interno di questa cornice che si inserisce uno dei capitoli – solo apparentemente fuori traccia – fra i corpi esanimi di questi maschi, fra le voci degli infetti e quelle degli infettanti, tra cui il regista (l’olandese Tim Leyendekker, conosciuto in patria per i suoi corti, tutti disponibili su Mubi) non prende mai posizione.

Come una sorta di intervista alla biologa Katerina Sereti, studiosa dei virus che colpiscono i tulipani: da persona del mestiere, Sereti parla non dal punto di vista dell’uomo ma di quello del virus – che in certi casi ha ripercussioni visibili solo sulle striature rosse nei petali gialli del fiore. È un male? «Soltanto se il nostro desiderio è che il fiore sia giallo».

Ma il capitolo più potente, spaventosamente attuale, è quello in cui la trasposizione di uno dei ragazzi coinvolti sporge denuncia contro i tre “untori”, e si ritrova sottoposto a un interrogatorio da parte degli agenti talmente serrato e giudicante che gli è praticamente impossibile parlare.

«Avevi conosciuto questi uomini su internet?», «e avevi già avuto rapporti sessuali con almeno uno di loro?», «ed eri consapevole che queste fossero orge, no?», «e prima avevi bevuto, fatto uso di cocaina?»; «eri anche consapevole che avreste fatto sesso non protetto: loro ti hanno detto di essere negativi all’HIV e tu gli hai creduto» lo rimproverano, finché il poverino non conferma la loro tesi: «sì, sono stato stupido: e sono stato punito per questo».

Ennesima colpevolizzazione della vittima su cui cascano anche molti media nazionali (e si intende: nazionali italiani) quando raccontano per esempio casi di femminicidio dal punto di vista sbagliato: del virus appunto, che in questo caso è l’assassino

Testo di Luca Fontò


How To Fix Radios

Regia di Casper Leonard, Emily Russell
Lungometraggio, 90’. Canada, 2021.
Anteprima italiana
Venerdi, 17 Settembre, ore 21.30
Flying Tiger MiX Young Arena
toh magazine
Negli ultimi decenni la fioritura del cinema queer si è concentrata su drammi relazionali oppure storie di coming out. A volte invece capita di trovare un film come HTFR che invece è come se fosse stato fatto per osservare i lati quotidiani, magari meno sensazionali, come il senso di appartenenza al piccolo paese d’origine.

Come ricordi sfocati di ciò che voglia dire essere considerato un outsider perché diverso, perché gay in una piccola provincia.

È in luogo come questo dove ha inizio la storia di Evan (James Rudden) abitante rurale dell’Ontario meridionale. Un luogo dove molte volte la ripresa si sofferma sulla vastità sul lontano, come se fosse presente nei protagonisti il desiderio di fuggire lontano.

La vita incerta dopo la scuola lo porta Evan ad accettare un lavoretto estivo nel negozietto locale di esche.

Il lavoro mette Evan a contatto con Ross (Dimitri Watson) un giovane adolescente che si fa notare subito per i suoi capelli tinti di rosa che lavora con lui al negozio.

Per Ross ogni momento è un’ottima opportunità per darsela a gambe quando il capo li lascia da soli.

In quell’estate nasce un’amicizia inaspettata che metterà Evan a contatto con la realtà di Ross e a tutto quello che Ross è costretto a subire dai bulli del paese per la sua diversità.

Evan osserva la capacità di Ross di vivere in un ambiente ostile dove il fatto di non volersi omologare è solo perché tanto sarebbe infastidito lo stesso, meglio quindi rimanere rimanga fedele a se stesso.

Nonostante sia un film low budget, la pellicola trasmette una perfetta sinergia tra il luogo e i personaggi. Lo spazio e il luogo presenti sembrano quasi giustificare la loro presenza per aggiungere pressione ai protagonisti, che riescono a ritagliarsi momenti di gioia in luoghi dove non c’è nulla da fare.

Il film riesce a trasmette dei lati meno definibili, come la sensibilità delle persone, che emerge profondamente, mentre cercano una loro voce e un posto nella vita.

HTFR racconta una storia semplice sicuramente uno spaccato di un’amicizia che però per qualche motivo è sempre trattenuta e nonostante tutto un po’ rassegnata.

Le basi della storia avrebbero sicuramente potuto portare ad un altro sviluppo, e il finale ha un sapore un pò amaro della sconfitta.

Testo di Alex Vaccani


Poppy Field

Regia di Eugen Jebeleanu
Lungometraggio fuori concorso, 81’. Romania, 2020
Disponibile in streaming su NEXO+ dalle ore 14:00 del 17/09 alle ore 14:00 del 20/09
MiX festival
Poppy Field (Camp du Maci) segna l’esordio di Eugen Jebeleanu e conferma la lucidità dello sguardo sul contemporaneo del cinema rumeno degli ultimi 10 anni.

La pellicola si ispira a fatti realmente accaduti. 2013, Bucarest: la proiezione di un film LGBT viene interrotta da un gruppo di manifestanti, The Orthodox Brotherhood of the Great St. George: fanatici religiosi e nazionalisti armati di cartelli, icone e rosari. Il film era I ragazzi stanno bene con Julianne Moore e Annette Bening.

Negli anni seguono altre manifestazioni simili, nel 2018 contro la proiezione di Soldiers. Story from Ferentari della regista serba Ivana Mladenovic (il suo Ivana the Terrible in concorso e visibile gratuitamente in streaming al Kino Arte Film Festival) e 120 BPM di Robin Campillo.

Questa è la premessa che Jebeleanu usa per costruire il tessuto sociali in cui si muove il suo protagonista, Cristi, un poliziotto – anzi, un gendarme – rumeno segretamente gay.

Il film inizia con l’arrivo in città del suo compagno, Hadi, un assistente di volo. Per di due si prospetta un weekend casalingo d’amore, Cristi difatti non ha intenzione di farsi vedere in pubblico col fidanzato, a cui non dispiacerebbe anche una semplice gita in montagna. Ma è subito chiaro che i due hanno davanti a loro orizzonti differenti.

Seguiamo quindi Cristi in un turno di lavoro. La sua squadra è chiamata a gestire la protesta di un gruppo di attivisti religiosi che hanno fatto irruzione in un cinema (di proprietà statale) per interrompere la proiezione di un film indecente. La situazione è tesa, i poliziotti non sanno che fare.

Da una parte guardano ai fanatici con pena, dall’altra non hanno la minima intenzione di prendere le parti del pubblico, per paura di essere ritenuti simpatizzanti o peggio ancora loro stessi gay.

La tensione aumenta, il disagio si fa palpabile: il cinema diventa una polveriera. Uno degli spettatori riconosce Cristi, tra i due evidentemente ci sono dei trascorsi e il suo segreto – che deve mantenere a ogni costo – scatena un complesso effetto domino e lo scoppio della violenza.
La cornice sociale della storia innesca nel protagonista un conflitto interiore che lo porta a confrontarsi con sé stesso.

Cristi è costretto a uniformarsi ai meccanismi etetonormativi del suo ambiente di lavoro, incarnando così il conflitto e la vulnerabilità di molte persone queer esposte ad ambienti machisti e tossici.

I colleghi sanno di lui? Lo sospettano? Il regista è abilissimo nell’insinuare il dubbio, senza dire troppo o mostrare, il cameratismo della squadra si esprime anche in questo.

Jebeleanu dirige in maniera sobria e efficace uno spaccato intimo, quello di Cristi è un ritratto complesso che non scade in toni giudicanti o facili morali preconfezionate, osserva il suo protagonista con un misto di distacco e tenerezza.

Testo di Lorenzo Peroni


Sediments

Regia di Adrián Silvestre
Documentario, 80’. Spagna, 2021
Disponibile in streaming su NEXO+ dalle ore 14:00 del 17/09 alle ore 14:00 del 20/09
MiX festival

«Quelli sono i sedimenti, gli strati della terra, li abbiamo studiati alle superiori. La terra svela la sua storia. Quando gli elementi si muovono avanti o indietro, finiscono per trasformare persino le rocce».

Adrián Silvestre, classe 1981, è un regista valenciano che ama lavorare intorno ad una comunità specifica con la quale costruire i suoi film, dove realtà e fiction spesso coesistono.

Se nel precedente lungometraggio Los Objetos Amorosos del 2016 ha investigato la migrazione femminile nella città di Roma, per Sedimentos è stato decisivo l’incontro con Tina Recio, fondatrice e direttrice del centro I-Vaginarium: un progetto di pedagogia sessuale di supporto alle donne transgender che affrontano il percorso della vaginoplastica.

E Tina Recio è proprio una delle protagoniste di questo documentario insieme ad altre cinque donne su cui il regista ha posato la sua macchina da presa: Lena Brasas, Alicia de Benito, Cristina Millán, Saya Solana e Yolanda Terol.

Sei donne quindi, di generazioni, estrazione e vissuti diversi, che si raccontano in questo vivace road movie rurale transfemminista, tra stratificazioni drammatiche e venature di corale umorismo, visivamente dominato dai loro volti, dalle loro parole e dalla natura: tra boschi, montagne, grotte e un imponente bacino minerario, quello dei sedimenti che danno il titolo al documentario.

Proprio come le stratificazioni della terra, siamo tutti formati da più strati che ci identificano e ci rendono unici; raccontare la nostra storia non è sempre facile, ma alle volte cercare supporto, in una comunità ad esempio, può aiutare a trovare il coraggio di affrontare il mondo là fuori, ma innanzitutto se stessi.

Testo di Francesco Mascolo


Sublet

Regia di Eytan Fox
Lungometraggio. 90’. Israele/USA, 2020
Venerdi 17 Settembre, ore 22.00
Piccolo Teatro Strehler
MiX festival
Sublet è un film che mette in evidenza l’impatto che ogni uomo può avere su un altro uomo. Il film è sottile, credibile ed evita abilmente alcuni cliché. Ha tanti ottimi spunti e ti fa vedere una Tel Aviv che incuriosisce.

Il film comincia con l’arrivo a Tel Aviv dell’americano Michael (John Benjamin Hickey) uno scrittore di mezza età che arriva in città per fare ricerche per un articolo che sta per scrivere. Come preannuncia il titolo il suo soggiorno a Tel Aviv è un appartamento in affitto, che però al suo arrivo è ancora occupato dal ragazzo che glielo ha affittato, essendosi confuso sulla data del suo arrivo.

Dopo qualche momento di imbarazzo Tomar (Niv Nissim) lo studente proprietario dell’appartamento convince Michael a restare dopo aver ammesso francamente di aver bisogno di soldi.

Poiché Tomar ora non ha un posto dove andare, Michael si offre di lasciarlo rimanere in cambio di fargli da guida turistica per mostrargli i luoghi meno turistici della città.

Michael vede così la Tel Aviv attraverso gli occhi di un bohémien ventenne che è sempre stato libero nel suo suo orientamento sessuale.

Nel corso di cinque giorni, Tomar mostra a Michael la città e nel mentre i due si conoscono. Michael è tranquillo e riservato, ogni sera richiama il marito a casa ogni e si capisce che ha chiaramente qualcosa che lo tormenta.

Tomar, invece è un edonista che sembra pensare nient’altro che all’attimo e a quello che gli provoca piacere. Col trascorrere delle giornate i due sviluppano un’amicizia e un’attrazione sessuale.

Quello che è maggiormente riuscito nel film sono i momenti in cui i due protagonisti di generazioni diversi cercano di trovare un terreno comune su cui incontrarsi.

Nonostante questi mettano anche in risalto le diversità generazionali e di come siano vissuti alcuni atteggiamenti e situazioni oggi rispetto a prima. Questi sono scene che inducono ad una riflessione e mettono luce su alcuni drammi generazionali.

Sublet ha una vena romantica che si manifesta soprattutto nella seconda metà del film, un po’ ci si spera o ci si aspetta questa svolta anche se forse nella realtà sarebbe stata più indirizzata verso un’attrazione fisica; più lussuria che romanticismo.

Comunque questo incontro cambia entrambi i protagonisti o almeno in parte li rende più consapevoli anche su l’altro.

Sublet fa parte del genere di film: dramma del “breve incontro” come il cult Weekend con il quale il paragone sembra spontaneo. Ebbene Sublet riesce a mantenere un fascino sottile soprattutto per la rappresentazione dolce di due uomini che creano una connessione inaspettata.

Sublet alla fine è malinconico riguardo a ciò che lega inaspettatamente due uomini gay che hanno tutto per essere così distanti, ma nonostante o forse a causa delle loro differenze generazionali riescono proprio ad incontrarsi.

Il regista Fox ha già esaminato gli aspetti della vita gay israeliana in film come Yossi and Jagger, il suo sequel, Yossi e The Bubble.

Testo di Alex Vaccani


Valentina

Regia di Cássio Pereira dos Santos
Lungometraggio, 95’. Brasile, 2020
Anteprima Italiana
Giovedì 16 settembre, ore 20.00
Piccolo Teatro Strehler
MiX festival
La proiezione è preceduta dalla cerimonia di apertura presentata dal comico Paolo Camilli, con la presenza della Vicepresidente del Consiglio Comunale di Milano Elena Buscemi, da una performance di danza del ballerino solista del Teatro alla Scala Massimo Garon e della prima ballerina del Teatro alla Scala Antonella Albano, dall’intervento del deputato Alessandro Zan e da un importante riconoscimento: il premio More Love alla senatrice Liliana Segre.

Valentina è un coming-of-age opera prima del regista brasiliano Cássio Pereira dos Santos, che esamina l’emarginazione dei giovani trans.

Valentina, interpretata dalla trans YouTuber Thiessa Woimback, esamina il modo in cui i giovani trans sono emarginati dal sistema educativo, attraverso una storia di formazione che segue la sua vita mentre si trasferisce in una piccola città con la madre.

Nel suo adattarsi alla nuova vita, sarà proprio la burocrazia scolastica l’ostacolo più insidioso, perché Valentina dovrà avere il consenso e la firma di entrambi i genitori per far si che l’istituto accetti di chiamarla con il suo nome prescelto, ma suo padre è scappato con una donna più giovane e risulta irreperibile.

Nella sua avventura Valentina trova spiriti affini tra i suoi coetanei: Júlio (Ronaldo Bonafro) e Amanda (Letícia Franco), personaggi secondari che non sono proprio quello che sembrano a prima vista.

Júlio, nonostante la sua spavalda sicurezza brama l’intimità di un primo bacio da un ragazzo. Amanda che è incinta, nel frattempo, dimostra di essere un asso degli hacker.

I tre giovani attori condividono una dolce alchimia ogni volta che sono tutti insieme sullo schermo, ed è la loro relazione che alla fine dà speranza alla storia.

Valentina viene continuamente ferita e delusa dagli uomini in un crescendo che culmina con una scena in un bar, dove un ragazzo con cui si sta baciando la prende per la gola dopo aver scoperto che è trans.

Da qui la violenza degenera trasmettendo allo spettatore come la trasmisoginia possa intensificarsi, e quanto sia pervasiva all’interno della società in generale.

Testo di Marco Cresci


Veneno

Regia di Javier Ambrossi, Javier Calvo
Serie TV, Spagna, 2020
Domenica 19 Settembre
Piccolo Teatro Studio Melato ore 18:00
Proiezione di due episodi con la presenza dei registi e dell’attrice Lola Rodriguez.
MiX festival
Quella di Veneno non è semplicemente una storia, è – in fin dei conti – tutte “quelle” storie. Quella di Cristina Ortiz Rodríguez innanzitutto, ma non solo.

Facciamo un passo indietro. Spagna, 1996: in un talk della seconda serata di Telecinco (Esta Noche Cruzamos el Mississippi) fa il suo esordio televisivo la Veneno: prostituta transessuale, sboccata, bellissima.

Nasce una star. La Spagna la ama, l’audience si alza: per lei è il riscatto da una vita in fuga. In fuga dalla provincia bigotta, da una famiglia che non la ama, dalla miseria. Forse per la prima volta in vita sua, gli applausi del pubblico, la fanno sentire veramente amata. Ovviamente è un grandissimo errore.

Un altro passo indietro. Nella spagna post-franchista, libera dalla censura di regime, prende il via una rivoluzione culturale, la Transición española.

Vicente Aranda nel ‘77 gira Cambio de sexo, film con Bibi Andersen, attrice transgender che diventa musa e icona di Pedro Almodóvar, vate assoluto della movida madrilena.

La capitale diventa un motore propulsore per la creatività e la liberazione dei costumi: cinema e musica sono veicoli per disintegrare anni di tabù e repressioni.

Dalla fine degli anni ‘70 Susana Estrada diventa il simbolo di questa “transizione”: film erotici, canzoni piccanti, fotografie esplicite, la liberazione sessuale viaggia alla velocità della luce.

Eppure, nonostante il sesso, l’omosessualità e la transessualità ormai da quasi due decenni vivano “tranquillamente” al cinema e nella cultura visuale spagnola (prima underground e via via sempre più mainstream), l’apparizione sul piccolo schermo della Veneno è qualcosa di diverso, di nuovo, di oltraggioso: non è un’artista.

In TV (che al contrario del cinema è un oggetto domestico, familiare) trova posto una prostituta di strada che parla di sé stessa, e in breve tempo la sua vita diventa un proto reality.

Sua madre – che mai ha accettato l’identità della figlia – viene invitata in trasmissione, volano parole grosse, Cristina è un fiume in piena, l’audience si alza.

Quello che la Veneno ancora non sa però è che lo spettacolo preferito del pubblico è gustarsi la caduta dei propri idoli. La gente ama la Veneno, ma non la rispetta. Chiuso il programma che l’ha resa un’icona seguono anni difficili. L’epilogo è tragico.

La serie di Javier Ambrossi e Javier Calvo (quelli di Paquita Salas, su Netflix) mette in scena un melodramma larger than life, totalizzante: è triste, euforico, violento, esplicito, non risparmia colpi bassi – tutti assestati alla perfezione.

Gli 8 episodi ricostruiscono la vita di Cristina la Veneno sviluppando ogni puntata su un nucleo tematico, mescolando i piani della rappresentazione e della narrazione: passato e presente dialogano in un incastro costruito alla perfezione.

Impressionante il lavoro sulle e delle tre attrici che hanno interpretato Cristina: Jedet (nei primi anni di transizione), Daniela Santiago (giovane, esplosiva e furibonda) e Isabel Torres (sfatta, invecchiata a sconfitta).

La regia e la sceneggiatura sono piene di idee, di vita; non c’è nulla fuori posto, il racconto fugge della mera biografia e espande i suoi confini verso il romanzo storico: immortala epoche diverse che cedono il passo, una dopo l’altra, a qualcosa di nuovo, di giovane.

Veneno riflette su come i mass media rappresentano un confine: ciò che appare c’è, è lecito, può essere ammirato, denigrato o discusso, ma esiste e ha in sé la dignità di ciò che può apparire; è il confine tra cosa è legittimo e cosa no.

La Veneno, irrompendo nel piccolo schermo della Spagna anni ‘90, legittima l’esistenza delle persone transessuali al di fuori dell’alibi artistico e intellettuale, al di fuori della politica e dell’attivismo. Lei è unica, è una scheggia impazzita, ma la sua è una vita come tante.

Ma la serie racconta anche altre storie: c’è quella di Valeria Vegas (anche la sua una storia vera), studentessa transgender che ha nella Veneno il suo idolo assoluto. Quando riesce finalmente a conoscerla decide di scrivere un libro sulla vita, ¡Digo! Ni puta ni santa.

Ed è qui che inizia la serie. Questo incontro cambia la vita di Valeria, che grazie all’amicizia con Cristina fa chiarezza sulla propria identità e trova il coraggio di essere sé stessa.

Scrivere le memorie della Veneno però si rivela più complicato del previsto: cosa è vero e cosa no di quello che le sta raccontando? Quanta la vita e quanto il racconto? Dall’infanzia nella provincialissima Adria, in Andalusia, ai riflettori che fanno di lei una star, fino a una spirale autodistruttiva alimentata da rimpianti, risentimenti e paure.

Quello sui passi della Veneno diventa per Valeria – e per lo spettatore – un viaggio universale, alla scoperta del lato umano di un’icona controversa, spesso contestata e ritenuta problematica dagli stessi attivisti LGBTQ+ (troppo trash, distante dal movimento per i diritti civili, dalla nuove generazioni, dalla nuova sensibilità).

Quello di Paca “La Piraña”, poi, è un personaggio meraviglioso, la migliore amica della Venone, ferita e tradita a morte per pura vanità, interpretato divinamente dalla stessa Paca “La Piraña” – in un perfetto cortocircuito di quella cosa dell’arte che imita la vita e la vita che imita l’arte.

Veneno – attraverso un intreccio corale in cui vengono indagati i significati di famiglia, la natura dell’amore e le radici dalla paura – metta in scena la potenza e l’importanza del “racconto”, la capacità di costruire e di riappropriarsi delle proprie storie, delle proprie fragilità e della propria identità attraverso le parole che scegliamo.

Testo di Lorenzo Peroni

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